Via Gemito

Il maestro Piantieri parlava a tutti delle capacità straordinarie di quel bambino. Fdricchiè sapeva non solo disegnare, colorare, leggere e scrivere, ma anche dire con precisione la sua opinione in fatto d'arte, mostrando un precocissimo spirito critico e un'altrettanto precoce competenza. Un giorno, raccontava mio padre, successe che Piantieri portò in classe un quadro a olio di un pittore di nome Colizzi che rappresentava, come diceva il titolo, Effetti di neve all'alba. Fu il primo quadro a olio che vide nel corso della sua lunga vita e lì per lì gli fece una buona impressione. Ma dopo un po’, avendo osservato con estrema cura il quadro, ne individuò i mille difetti e passò a una critica puntuale di ogni dettaglio sbagliato, dimostrando al maestro la pochezza del pittore Colizzi. Tanto che Piantieri, esterrefatto, chiamò subito don Mimì e gli disse: «Questo bambino deve andare d'urgenza alla scuola d'arte». 

Don Mimì arrivò di malavoglia, era la malattia mortale di ogni gratificazione o sentimento di commossa letizia che investisse il figlio. Il maestro si prodigò molto, elencò al tornitore tutti i meriti del bambino, disse che era il migliore in aritmetica, che scriveva benissimo, che cantava in modo molto intonato, che aveva orecchio per la musica, che aveva disegnato persino un bellissimo ritratto dell'onorevole Mussolini. Niente, don Mimì se ne fottette, specialmente di quell'ultima cosa. Appena a casa disse: «'O maestro è ‘nu strunz! Che magni poi con la scuola d'arte?». Anzi da quel momento cominciò a chiedere spesso, ad alta voce, a un pubblico costituito sostanzialmente da Filumena: «Fdrì è meglio di me?». Domanda alla quale si rispondeva da solo, prima che la moglie si intromettesse: «No, non è meglio di me. Quindi farà l'operaio. Che c'è di male a fare l'operaio?». 

Qui mio padre, seduto davanti al cavalletto a disegnare, così mi spiegava: «Se uno sa fare solo l'operaio, Mimì, non c'è niente di male. Ma se uno ha un altro destino, e si vede benissimo da tanti segnali, che cazzo significa “che c'è di male”?». Non significava niente. Era solo una formula utile a suo padre per mandarlo al più presto a lavorare e raggranellare attraverso il primogenito un altro po’ di danaro da giocarsi alle carte o alle corse dei cani. A questo tendeva don Mimì e perciò non voleva vedere, non voleva sentire. Gli occhi li aveva perfetti, le orecchie pure, era un uomo molto intelligente. Se avesse voluto ammettere: «Cazzo, guarda che figlio sono riuscito a fare», avrebbe potuto. Invece si era intestardito - mormorava Federì con una sofferenza di vecchia data nella voce - a scavargli una fossa profonda per buttarcelo dentro, figura d'orco che anticipava tutti gli orchi della sua vita futura: dirigenti scurnacchiati delle ferrovie, neoricchi presuntuosi, pittori chiavechemmèrd che gli strappavano premi importanti alle mostre. 

Domenico Starnone, Via Gemito, Feltrinelli (collana Universale Economica n° 8858), 2017⁶; pp. 249-50. [Prima Edizione originale: 2001]

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