Il mondo alla fine del mondo

«Alla salute», disse il compagno del Basco sollevando il bicchiere. Si chiamava don Pancho Armendia, ed era il socio, il compare, il secondo a bordo, l'addetto all'arpione e il miglior amico del Basco. Gli uomini iniziarono a darsi da fare coi due mezzi cosciotti d'agnello, mentre io, a disagio, con il bicchiere in mano, bevevo a piccoli sorsi la chicha di mele. «E così l'ha mandata don Félix. Senta. Che posso fare per lei, giovanotto?» Questa era La Domanda. Ancora prima di partire da Santiago mi ero preparato il discorso che pensavo di spiattellare al primo baleniere che avessi incontrato, ma adesso, seduto lì, davanti ai due uomini che mangiavano in silenzio, non trovavo le parole. «Portatemi con voi. Per poco tempo. Per un viaggio soltanto.» Il Basco e don Pancho si guardarono. «Quello che facciamo non è un gioco. È un lavoro duro. A volte più che duro.» «Lo so. Ho esperienza del mare. Be’, non molta.» «E quanti anni ha? Se si può chiedere.» «Sedici. Ma presto ne compirò diciassette.» «Senta. Non va a scuola?» «Sì, sono qui grazie alle vacanze estive.» «Senta. Dove ha fatto esperienza?» «Ho navigato sulla Estrella del Sur. Be’, ho fatto il viaggio come sguattero tra Puerto Montt e Punta Arenas.» «Senta. Allora conosce il polacco.» «Il capitano Brandovic? Veramente credo che il suo cognome sia iugoslavo.» «Da queste parti chiamiamo polacchi tutti quelli con un nome che termina in ‘ki’ o in ‘ich'», mi informò don Pancho. La conversazione, se così si può chiamare, proseguì in un tono che mi parve svogliato e senza futuro. Mentre i due uomini mangiavano formulando ogni tanto una nuova domanda, vedevo sfumare le mie speranze. Cominciai a odiare i «senta» che don Antonio Garaicochea continuava a ripetere come un inevitabile ritornello. A quel punto entrò nel locale un gruppo di uomini. Erano gli stessi che avevo visto prima impegnati a calafatare, e con le loro voci amichevoli cominciarono a disputarmi l'attenzione del Basco e di don Pancho. «E che cosa sa fare, giovanotto?» Questa era un'altra Signora Domanda. In realtà sapevo fare ben poco. «So cucinare. Be’, un po’.» «Senta. E così sa cucinare.» Il Basco non mi credeva, e io pregavo che non mi chiedesse la ricetta di qualche piatto. Don Pancho ripulì l'osso del cosciotto con la punta del coltello e mi fece la domanda di riserva, a cui però risposi a fatica. «E perché vuole imbarcarsi su una baleniera?» «Perché… perché… a dire la verità è che ho letto un romanzo. Moby Dick. Lo conoscete?» «Io no. E penso che non l'abbia letto nemmeno il Basco. Non siamo molto istruiti da queste parti, sa. E di che parla questo romanzo?» A Santiago, tra i miei amici, avevo fama di essere un buon «raccontatore» di film. Erano le cinque del pomeriggio quando cominciai a narrare, timidamente all'inizio, l'epopea del Capitano Achab. I due uomini mi ascoltavano in silenzio, e non solo loro: agli altri tavoli le conversazioni si interruppero e a poco a poco i clienti si avvicinarono. Raccontavo lottando con la memoria. Non potevo tradirmi. Gli uomini capirono che mi stavo concentrando nella narrazione, e senza far rumore mi riempirono varie volte il bicchiere di chicha di mele. Parlai per due ore. Herman Melville mi avrà perdonato se in quella versione del suo romanzo c'era un po’ di farina del mio sacco, ma alla fine tutti gli uomini avevano i volti pensierosi, e dopo avermi dato delle pacche sulle spalle tornarono ai loro tavoli. «Moby Dick. Senta…», sospirò il Basco. Chiesero il conto. Pagarono. Ebbi l'amara certezza che la mia avventura si sarebbe conclusa lì. «Bene, andiamo», disse don Pancho. «Anch'io? Mi prendete con voi?» «Certo, giovanotto. Bisogna approfittare della luce per controllare gli strumenti. Salpiamo domattina presto.» 

Luis Sepúlveda, Il mondo alla fine del mondo, traduzione di Ilde Carmignani, TEA - Tascabili degli Editori Associati n° 1054, 2003; pp. 26-29. [ Edizione originale: Mundo del fin del mundo, Tusquets Editores, Barcelona, 1994 ]

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