Diario di ordinaria tristezza

 «Vent'anni dopo la resa di molte città arabe, le idee che stavo esponendo in ebraico a un mio amico non sono piaciute a un uomo seduto al ristorante. Ha preso subito le difese dell'oppressione israeliana con una giustificazione che riteneva inconfutabile: sosteneva che non conoscessi gli arabi, altrimenti non avrei parlato di giustizia con quel tono. L'ho pregato di spiegarsi meglio, allora corrugando la fronte mi ha chiesto se avessi già sentito parlare di un paese chiamato Birwa. 'No, dov'è?' ho risposto. 'È scomparso dalla faccia della terra, perché l'abbiamo raso al suolo, abbiamo ripulito il terreno dai sassi, l'abbiamo arato e ci abbiamo piantato sopra degli alberi per nasconderlo'.'Per nascondere il vostro crimine?' Ha protestato rettificando: 'Al contrario, per nascondere il crimine di quel paese maledetto'. 'E qual era il suo crimine?' ho domandato. 'L'averci resistito, l'averci combattuto. Ci ha provocato gravi perdite e ci ha costretto a occuparlo due volte. La prima volta stavamo cenando. il tè era caldo, i contadini ci hanno colti di sorpresa e ce l'hanno ripreso. Come potevamo accettare quell'umiliazione? Tu non conosci gli arabi, te lo dico io'. Quando l'ho informato che ero arabo e precisamente di Briwa ha provato a scusarsi con garbo imbarazzato e mi ha parlato di pace. Poi mi ha invitato a visitare il suo negozio dove vendeva mobili e utensili domestici saccheggiati dalla città siriana di Quenitra.»  

Mahmud Darwish, Diario di ordinaria tristezza, 1973  da Libreria Tamu


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