LA FIABA È IL LUOGO DELLA NOSTRA NASCITA

Se un bambino potesse rinvenire il suo più antico passato, non farebbe nulla. Un bambino che gioca è già un piccolo uomo: adotta una concreta operosità quando costruisce bastioni di sabbia contro il mare o quando cerca di recuperare il suo pallone, incastrato su un albero. Quando era molto più piccolo e lo portavano in braccio, non faceva nulla, non poteva fare nulla e di conseguenza nulla capiva. Col tempo, la sua posizione è cambiata. Accucciato nella culla, sospesa su un abitacolo dove ha visto apparire la spiaggia, il mare, le barche, si è meravigliato quando, a un movimento della madre o della balia, all’improvviso il cofano della macchina gli ha nascosto tutto. I beni e gli spettacoli del mondo dipendevano da alcune persone amate e potenti, i cui capricci gli apparivano inspiegabili. Una persiana serrata gli ha soppresso la vista sul giardino. Ma il bambino sa che cos’è una persiana? Niente affatto, finché non la chiuderà o la aprirà egli stesso. Inoltre, non appena riusciva a cogliere e a padroneggiare le cose, queste continuavano a sparire e ad apparire. A volte, ha fatto il mago. Riusciva a far apparire le cose secondo vari gradi. Ora riderebbe del suo modo di chiamare le cose e di evocarle. Non dobbiamo più sollevarlo quando implora al pallone di scendere dall’albero. PAN è su www.pangea.news Eppure, gli raccontiamo ancora di Ali Baba e di Aladino e di Cenerentole, favole in cui le cose si mostrano o svaniscono secondo i vezzi degli incantatori e delle streghe. Le porte si spalancano, i tesori sono svelati, i palazzi costruiti in un attimo e un tappeto magico trasporta l’uomo, in un istante, oltre mari e montagne. L’ostacolo, di solito, è costituito da un vecchio o da una vecchia, che occorre persuadere con talune particolari parole. Spesso uno di questi mostri cede soltanto al superiore potere di un altro, che si mostra generoso e favorevole. Tutto riguarda un favore. Possiamo sperare ogni cosa, ogni cosa temere. Per una parola diventiamo ricchi, per un’altra ci scopriamo poveri. Di fronte a questo mondo, il bambino si blocca. Ci crede? Può ancora crederci? No, non può crederci: è certo che la palla cadrà soltanto se riuscirà a scuotere l’albero, o se sarà così abile da colpire il ramo con un sasso. Sa come trovare la sua casa all’angolo della strada: lei è lì, non lo inganna. Si fida dei suoi occhi, delle sue mani, delle sue gambe. Il piccolo aereo che riesce a far volare è di carta, piegato nel modo adatto. Conosce già le leggi della fisica. Come non sorridere di quel tizio che levita semplicemente perché lo desidera e che corre senza muovere le gambe? Eppure, queste meraviglie non gli sono del tutto estranee. Così era ai vecchi tempi, gli dicono, e lui ha una vaga idea che ai vecchi tempi, in effetti, i tempi della balia e della macchina, era proprio così. Non può crederci, ma è sul punto di crederci, sul margine della sua memoria; è a un passo dal ricordare ciò che tutti gli uomini dimenticano. È come chi visita a distanza di tempo i luoghi della prima infanzia: non riesce a riconoscerli ma li ama, senza un perché. Le fiabe sono i luoghi della nostra primissima infanzia. Parlando secondo ragione: non possiamo credere alle fiabe, a volte ci fanno ridere, ma le amiamo perché hanno un enigmatico legame con un tempo che è stato il nostro, popolato di giganti capaci di cose straordinarie, come aprire una porta. Una porta si apre grazie alle parole magiche del narratore: entriamo, come nella nostra dimora, nelle stanze della paura, del desiderio e della speranza. La fiaba è il luogo della nostra nascita. E poiché il miracolo è stato il primo oggetto della nostra osservazione, abbiamo nei suoi riguardi una preferenza affettiva che la fredda ragione non può cancellare. 

Alain 

Il testo è tratto da “La Nouvelle Revue Française”, n. 243, Décembre 1933 Traduzione di Davide Brullo

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