RIFLESSIONI SULLA VECCHIAIA E SULLA MORTE
I
Soltanto la morte ci ripara dove più nulla assale.
La vecchiaia: nulla di ciò che credi. Non ti annienta, fa di te un gigante.
La vecchiaia dona una lucidità di cui il giovane è incapace, una
serenità preferibile alla passione.
Se la serenità che infine giunge non fosse sigillata da una disperazione
minima e segreta, silente, che sappiamo dominare, parrebbe un compiacimento, nulla più che una bugia.
La vecchiaia è tutt’altro che il tetro vestibolo della morte: è la vera,
grande vacanza dopo quell’insormontabile sortita dei sensi, del cuore
e dell’anima che fu la vita.
Saggezza: dopo che si è goduto del Creato, riporlo nel “nulla” da cui
è emerso, tra le Mani di Dio.
Che sollievo pensare alla Terra prima di doverla lasciare, pensare al piacere come a un luogo di incanti e di rischi che, grazie a Dio, conosco bene, e che, grazie a Dio, conteggio ormai tra i ricordi.
L’opulenza: non la conosciamo affatto soddisfacendo i nostri desideri,
ma quando li abbiamo superati, annientandoli.
La serenità sembra affine all’indifferenza, benché se ne distingua per
la sua essenza: tutto accade come se non si fosse sensibili a niente.
La saggezza a cui anelo è uno stato di ardente serenità.
II
Che senso ha restare ancora ancorati alla terra? Ho varcato tutto ciò
che mi tratteneva ad essa. Ora non mi aggrappo che al niente, e al
meno che niente, il “me” che ho tanto esaltato.
Come essere interessati ancora a qualcosa di mondano, a se stessi?
Dopo sessant’anni, questo rigagnolo di vita è una sorta di superfluo
privo di necessità. Occorre accettarlo senza dargli credito, accoglierlo
senza attaccamento. Nulla. Voglio restare immobile. Se consento a
trasferirmi, ciò esula da me, lo faccio per le persone verso cui sono
responsabile.
L’esperienza degli atti e degli esseri mi installa in un’immutabilità che
nulla può intaccare. Incapace di turbamento come di indignazione e
di entusiasmo, di violente antipatie e di eguali simpatie, non mi interesso a ciò che attira gli altri, come se, il cuore confitto in una sorta di
rifiuto universale, teso all’assoluto fine del non ricevere nulla, il volto e
i gesti partecipassero della rigidità della maschera e dell’automa. Vita
passata nel rango del commediante, attore consumato e consunto,
sono libero di contrastare le passioni proprio perché le conosco così
bene.
Devo essere stato così intollerabilmente felice e atrocemente addolorato nell’anno 1951, intorno ai mesi di luglio-agosto-settembre, che
senza alcun dubbio ho per un attimo cessato di esistere: da quel soggiorno, seppure breve, nell’alveo del Nulla, non sono mai rinvenuto
del tutto. Da allora, guardo a ciò che mi accade come da un altro
mondo. I gesti che faccio – o che fingo di compiere – somigliano già
a ricordi. Forse, sto solo simulando la vita.
A volte sono così assente da tutto che la solitudine mi inebria. È uno
stato di pre-morte che conosco bene. Non è necessario, infatti, passare
per le forme della morte per decretare la propria morte, senza tuttavia
che sia attenuata la vita. La morte è uno stato dell’anima.
Quando morirò, sarò morto da molto tempo. Forse lo sono già.
Man mano che si diventa vecchi, la vita si allontana gradualmente: la
fissi dalla piccola estremità di un microscopio, diventa microscopica.
A poco poco, scema d’importanza, perde di brillantezza, il suo sapore
sciama, l’interesse pure. Per un momento, è quasi nulla – nel momento in cui la si perde, è niente, ed è niente, dunque, morire.
III
Sopravvivere a se stessi, che cosa straordinaria. Non ci aggrappiamo
più a nulla e siamo più sensibili a tutto. Piangiamo senza lacrime, non
sappiamo ridere. Ci maschera quel sorriso che la morte, presto, imprimerà sul nostro volto, sigillo definitivo e inviolabile.
Dal momento che mi considero morto, porto con ripugnanza alle
labbra qualcosa che mi nutra, come se volessi prolungare, contro ogni
ragione, la coscienza di un attimo, appassito, perso. Se giudico dalle
mie reazioni, non sono più di questo mondo, sono prossimo al non essere. Da qualche tempo potrei dire, senza rischio d’errore, di essere un
morto vivente, poiché niente più mi tocca né mi intriga tranne i sogni,
nei quali occupo una vita virtuale. Meravigliosa libertà di considerarsi
un essere del passato e accogliere ciò che mi accade come postumo.
Quando siamo stati felici si prova una certa ulteriore felicità nel non
attendersi più nulla dalla vita, senza smettere di vivere. Assistiamo
agli eventi con lo stesso distacco di Carlo V al cospetto del suo finto
funerale.
A volte la vita tiene a te più di quanto tu ti occupi di lei. Intendo: la
condizione della salute persistente, quell’ostinata fedeltà che ti mantiene in vita a lungo. Non rispondere a tali benefici con ironia nera.
Vivere senza più vivere: quello è l’esito di ogni sequela. Per chi percorre la passione, c’è qualcosa di più insopportabile del progressivo,
spietato raffreddamento di tutto ciò che ci circonda ed è dentro di
noi? Dobbiamo, senza rassegnarci, ammettere che questo è il vero
beneficio.
Marcel Jouhandeau
Il testo, “Réflexions sur la Vieillesse et la Mort”, è tratto da “La Nouvelle Revue
Française”, Juillet 1956, n. 43. Traduzione di Davide Brullo
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