Poveri e semplici

Dalla mia finestra, quando alzavo gli occhi, non vedevo nulla di nulla.

Solo un po’ di bianco, o di nerofumo, e un camino triste come una buca.

«Dio!», mi dicevo, «che mai sarà di questa mia vita? Dove andrò? Dove sarò tra pochi anni? Andrea e Sonia non si stancheranno di me? E se sì, dove mi rifugerò?»

Un uccello attraversava l’aria come una pietra.

Tutto era difficile, tutto era in letargo, non solo per me, ma per la natura tutta, per la vita medesima.

E mi andavo ricordando come di un sogno, benché invece li avessi in cuore vivissimi, dei miei ideali socialisti, della grande febbre che m’era presa a Napoli, dopo la guerra, di fare anch’io qualcosa di buono, collaborare affinché il mondo — da triste e ingiusto che era — divenisse lieto e provvido per tutti.

Allora mi rianimavo, sentivo che il mio cuore riviveva, e tornavo a piegarmi sulla macchina da scrivere. Non avevo molta stima di questo mio lavoro, ma del suo contenuto, cioè del suo scopo — ch’era collaborare alla Rivoluzione — sì.

Io, per la Rivoluzione, perché accadesse, e con essa il risorgimento degli uomini, della terra tutta, mi sentivo che volentieri avrei potuto morire. "

Anna Maria Ortese, Poveri e semplici, Vallecchi Editore (collana Narratori n° 32), Firenze, 1967; p. 20.

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