Libera nos a Malo

Mezzogiorno col sole, quando l’estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici, osservando la gente che conosciamo.
Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo al paese, come fuori della portata della morte. Rabbrividivo al sole.

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S’incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messo a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia, mi sono sentito di nuovo a casa. Erano rotolii, onde che finivano in uno sbuffo: rumori noti, cose del paese. Tutto quello che abbiamo qui è movimentato, vivido, forse perché le distanze sono piccole e fisse come in un teatro. Gli scrosci erano sui cortili qua attorno, i tuoni quassù sopra i tetti; riconoscevo a orecchio, un po’ più in su, la posizione del solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini, un personaggio del paese anche lui. Qui tutto è come intensificato, questione di scala probabilmente, di rapporti interni. La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può rifare con le parole.

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C’erano inoltre le caviàgne, o stradicciole rurali, che non vanno in un paese, ma quasi in visita ai casolari e alle famiglie dei contadini (“dai” tali o talaltri), o anche vanno semplicemente a finire in mezzo alla spagna e allo strafòglio, ai margini di una landa sconfinata di campi e fossati e colture. Allora si resta lì, con la bicicletta appoggiata a un moraro, e improvvisamente si sentono le voci di milioni e milioni di piccole bestie: la tarda primavera pare un luogo, non più una forma del tempo, e da in mezzo a questo luogo così grande, così folto, il paese a cui questa caviàgna riconduce sembra lontano e senza importanza, e per un po’ non si sa più cosa pensare.

Luigi Meneghello

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