Lettera ai non fratelli

Noi siamo gli scartati, i senza festa. Succede ai marinai, a chi è di turno, a chi non ha nessuno, non solamente a noi che passeggiamo un’ora al giorno in un cortile con una graticola al soffitto.

Faccio finta che sono nato in Cina, in Algeria, così non penso che oggi è Natale. Per un cinese, un mussulmano è un giorno qualunque dell’anno e loro messi insieme fanno maggioranza della terra. Così posso dimenticare che appartengo a una minoranza religiosa che festeggia la nascita del suo messia.
A casa i figli ricevono regali e scartano pacchetti. Di telefonare non se ne parla. Oppure sì, se ne parla tra noi, come di un oggetto dell’aldilà.

Il telefono l’hanno già inventato, dice uno di noi che guarda il soffitto, steso sulla branda della cella di sei metri quadrati dove siamo in sei, per buona sorte magri.
Oggi Natale è un compleanno approssimato, incerto: capita a molti di non conoscere la data di nascita e farsene dare una qualunque. Oggi è il Natale di uno che ha pagato il suo diritto di parola con la propria vita. Fu ucciso per reato di opinione, una faccenda di molti contro uno. C’era a suo tempo un gran bazar di altari e di divinità. Lui ne voleva uno solo, non accanto né aldisopra, lui ne voleva uno senza gli altri.
Non scagliò pietre, frecce, non si azzuffò né sparse sangue altrui per la sua idea. Non era un pacifista né un pacificato, guardava dritto in faccia il male che se ne andava a spasso per il mondo. Lo vedeva arrogante ma fragile, bisognoso di offendere per poter esistere. Chi non si faceva offendere dal male, lo negava. A uno schiaffo in faccia rispondeva con l’altra metà del viso: così rendeva il male ridicolo e vigliacco. Il male alle prese con lui annaspava a vuoto.
Credeva in un termine dei conti, al fine corsa del tempo assegnato. Non temeva nessuno, non poteva scalfirlo un uomo, un re, un giudice di parte con patibolo pronto. Oggi è il suo compleanno un po’ inventato, al quale ci siamo affezionati. Un giorno vale l’altro, comunque era d’inverno, in Medio Oriente.
Insisteva a dichiararsi uguale: figlio di Adàm era il suo biglietto da visita, cioè fratello di chiunque al mondo. Fu un sovversivo mite che raccoglieva in strada la sua schiera. I più fidati li trovò su un lago, raccoglitori di pane quotidiano con le reti.
Dava sollievo ai guasti di natura, ciecati, storpi, aggrediti da lebbra e altre rogne: li aggiustava. A volte basta una parola buona detta da vicino. Lo sappiamo noi, cinesi di stasera, mussulmani di un giorno, rinnegati per dimenticare che è Natale. Del resto anche qui dentro le altre fedi sono maggioranza, rinchiuse insieme a noi dentro i corridoi chiamati «bracci». Qui ci sono le braccia condannate alla pena di far niente, con le mani in tasca.
È Natale, fatene buon uso voi di fuori. Per noi è una casella da sbarrare, nel calendario che svuota i nostri giorni al gabinetto. Noi vi assolviamo dall’ingiuria di esserci fratelli. Non date retta all’uomo che state festeggiando. Noi siamo gli scartati, i senza festa. Succede ai marinai, a chi è di turno, a chi non ha nessuno, non solamente a noi che passeggiamo un’ora al giorno in un cortile con una graticola al soffitto.
Non ci facciamo caso se nessuno viene al parlatorio, al confine col vetro divisorio. Anche senza di quello, la distanza tra voi di fuori e noi è un callo che ci ricopre il corpo intero. Per resistere qui, vi dobbiamo ignorare. La televisione che racconta la vostra vita è per noi fasulla come la scritta sopra una lapide. Solo la cella è vera. Oggi si festeggia la vita breve di uno come noi.

Erri De Luca

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