Lascio
Lascio la mia ombra,
un affilato ago che ferisce la strada
e con occhi tristi esamina i muri,
le finestre con l’inferriata dove furono amori inetti,
il cielo senza cielo della mia città.
Lascio le mie dita spettrali
che percorsero tasti, ventri, acque, palpebre di miele
e per le quali discese la scrittura
come una vergine dall’anima sfilacciata.
Lascio la mia testa ovoide, le mie zampe di ragno,
il mio vestito bruciato dalla cenere dei presagi,
scolorito dal fuoco del libro notturno.
Lascio le mie ali a metà battere, il mio meccanismo
che come un piccolo cavallo un anno dopo l’altro galoppò,
in cerca della sorgente dell’orgoglio dove muore la morte.
Lascio vari taccuini bacati dalla pigrizia,
un certo numero di discole immagini del mondo
e tra grandi lampi qualche pianto
che ebbi come un po’ di sporca polvere fra i denti.
Accetta questo, raccoglilo nel tuo grembo come briciole,
dà all’oblio da mangiare un così fragile cibo.
un affilato ago che ferisce la strada
e con occhi tristi esamina i muri,
le finestre con l’inferriata dove furono amori inetti,
il cielo senza cielo della mia città.
Lascio le mie dita spettrali
che percorsero tasti, ventri, acque, palpebre di miele
e per le quali discese la scrittura
come una vergine dall’anima sfilacciata.
Lascio la mia testa ovoide, le mie zampe di ragno,
il mio vestito bruciato dalla cenere dei presagi,
scolorito dal fuoco del libro notturno.
Lascio le mie ali a metà battere, il mio meccanismo
che come un piccolo cavallo un anno dopo l’altro galoppò,
in cerca della sorgente dell’orgoglio dove muore la morte.
Lascio vari taccuini bacati dalla pigrizia,
un certo numero di discole immagini del mondo
e tra grandi lampi qualche pianto
che ebbi come un po’ di sporca polvere fra i denti.
Accetta questo, raccoglilo nel tuo grembo come briciole,
dà all’oblio da mangiare un così fragile cibo.
Sebastián Salazar
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