Che ci faccio qui? (Lamento per l'afghnistan)

Questo è - fra tutti gli anni - l'anno giusto per piangere la perdita di Robert Byron, l'arcinemico di ogni compromesso con Hitler. Quando capì che cosa avevano in mente i nazisti, disse: - Sul mio passaporto faro scrivere "guerrafondaio" -. Fosse vivo oggi, probabilmente penserebbe anche lui che col tempo (in Afghanistan ci vuole tempo per ogni cosa) gli afghani faranno qualcosa di assolutamente terribile ai loro invasori - magari ridesteranno i giganti addormentati dell'Asia centrale.
Ma quel giorno non riporterà in vita le cose che abbiamo amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti; i filari di pioppi bianchi che tremolavano al vento, e le lunghe e candide bandiere da preghiere; i campi di asfodeli che venivano dopo quelli di tulipani; o le pecore dalla grossa coda che chiazzavano le colline sopra Chakcharan, e l'ariete con una coda tanto grande che bisognava fissarla a un carro. Non ci sdraieremo più davanti al Castello Rosso a guardare gli avvoltoi roteanti sopra la valle in cui fu ucciso il nipote di Genghiz. Non leggeremo le memorie di Babur nel suo giardino di Istalif, né vedremo il cieco avanzare tra i cespugli di rose facendosi guidare dall'olfatto. Non andremo a sederci nella Pace dell'Islam con i mendicanti di Gazar Gagh. Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan, dritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio. Non dormiremo nella tenda dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam. E avremo perduto i sapori: il pane rustico, caldo e amaro; il tè verde speziato col cardamomo; l'uva che facevamo raffreddare nella neve; e le noci e le more secche che masticavamo per difenderci dal mal di montagna. Né ritroveremo l'aroma dei campi di fagioli, il dolce, resinoso profumo del legno di deodara, o l'afrore di un leopardo delle nevi a quattromila metri.
1980

Bruce Chatwin

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