Renzi approva il cimitero dei non nati, un calcio alla 194
Matteo Renzi, in coda alla spettacolare kermesse della Leopolda, forte del suo stile di giovanotto scanzonato, approva, con apposita delibera della sua giunta giovane e bella, un brutto film, vecchio e clericale.
Si tratta del cimiterino dei non nati, del diritto di seppellire grumi di materia, chiamandoli bambina e bambino. È uno splatter che ritorna sugli schermi della politica con inquietante regolarità. Il copione è sempre lo stesso: una compassionevole aggressione delle mamme mancate.
Tutte quelle donne che, poiché il corpo ha le sue insondabili leggi, non sono riuscite a portare a termine il loro dovere di animali al servizio della specie. Ci aveva già provato Sveva Belviso, vice dell’indimenticabile sindaco Alemanno. Si trattava, allora, di 600 metriquadri dedicati nel Laurentino.
Sveva dichiarò, nel gennaio 2012, che “Il seppellimento del bimbo” avrebbe “restituito valore” a quello che, senza una tomba-culla, sarebbe stato ridotto al rango di “rifiuto ospedaliero”. Si sollevò la prevedibile ondata di proteste. Da parte delle donne, da parte delle donne femministe, da parte della componente più laica della sinistra e di quella più illuminata del mondo cattolico.
Non ricordo chi vinse. Forse il cimiterino non fu edificato, forse sì. Ha poca importanza. Ciclicamente, i vari Movimenti per la vita (dei feti, non delle madri) hanno proposto di scavare fosse, piantare fiori, benedire zolle, riservare settori dei vari cimiteri per celebrare i diritti di chi non c’è. Sarebbe una delle tante crociate del superfluo, se non fosse, sempre più chiaramente e tristemente, una delle tappe simboliche più subdole ed efficaci della battaglia per la trasformazione della legge 194 in carta straccia.
Ci ha pensato il simpatico Renzi, mentre la sua giunta approvava la delibera in materia di sepolture e gravidanze interrotte? Ha pensato per un attimo che, in Italia, nascosta dietro la foglia di fico del “problema di coscienza” una percentuale elevatissima di ginecologi, rifiuta di eseguire il proprio dovere medico, nonché di ottemperare ad una legge dello Stato?
Ha provato a immaginare che cosa vuol dire per una ragazza, per una donna, che non si sente pronta a diventare madre, dover aspettare, cercare, bussare ad altri ospedali, mentre i giorni passano e l’operazione da dolorosa diventa pericolosa? No, non lui. Nessun uomo sa, nessun uomo riesce a immaginare.
Però alcuni si fidano di noi. Della parola delle donne. E ci ascoltano. È da più di 30 anni che lo ripetiamo: abortire è una sofferenza psichica, un sacrificio delle propria integrità fisica e mentale, uno scacco, un’amputazione. Ci si ricorre quando un’incidente, un’emergenza, un problema di salute o l’estrema giovinezza o la disinformazione impediscono il funzionamento del metodo anticoncezionale.
Si ricorre all’aborto quando qualcosa va storto nella relazione con l’uomo che dovrebbe diventare l’altro genitore. Quando la gravidanza è frutto di violenza, fisica o psichica. Si abortisce quando si è troppo povere, o fragili. Si abortisce perché diventare madre è una responsabilità enorme e non tutte non sempre decidono di farsene carico. Si abortisce con dolore, sempre, in ogni caso, quando l’aborto è volontario e quando è spontaneo. Si rassicuri chi teme che per le donne tutto sia diventato troppo facile. Non lo è, non lo è mai stato e non lo sarà mai. Chi, invece, in buona fede, pensa di procurare sollievo alle non-mamme, mandandole a piangere davanti a un quadratino di terra smossa, sappia che non è così. È una forma di sadismo di stato. Un’ingerenza intollerabile. Oltreché una palese buffonata.
Ci pensi, Matteo il giovane, prima di proporsi per la guida del centro sinistra. Ci pensino anche i suoi assessori.
Lidia Ravera
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