Sono le sette e mezza

Sono entrata nella camera di Arthur alle sette. Dormiva con gli occhi aperti, il respiro corto, così magro e livido, con i suoi occhi infossati e cerchiati di nero! Non si è svegliato subito. Lo guardavo dormire dicendomi che non poteva vivere a lungo in quello stato: aveva l’aspetto troppo malato. Cinque minuti dopo si è svegliato, lamentandosi, come sempre, di non aver dormito la notte e di aver molto sofferto, e soffre ancora svegliandosi. Mi ha detto buongiorno come ogni mattina, mi ha chiesto anche come stavo, se avevo dormito bene, etc. Gli ho risposto che stavo bene. A che pro’ dirgli che la febbre, la tosse e soprattutto l’ansia mi hanno impedito di riposare, ha già tutti i suoi mali.
Allora si mette a raccontarmi cose inverosimili che immagina siano accadute nell’ospedale durante la notte, ed è la sola reminiscenza che gli resti del suo delirio, ma così ostinata che tutte la mattine, e a più riprese durante il giorno, mi racconta la stessa assurdità e si arrabbia se non ci credo. Dunque l’ascolto e cerco di dissuaderlo: egli accusa gli infermieri e persino le suore di cose abominevoli e che non possono esistere; gli dico che probabilmente ha sognato, ma non demorde, e mi tratta da ingenua e sciocca.
Sento il dovere di rifargli il letto, ma da più di otto giorni non ha voluto che lo scendessero da lì; soffre troppo quando lo sollevano per metterlo sulla poltrona e per rimetterlo a letto. Fare il letto consiste nel tappare qui un buco, appiattire là una gibbosità, sistemare il traversino, rimettere a posto le coperte, senza lenzuola, e tutto ciò, beninteso, con una moltitudine di manie da malato. Non sopporta che ci sia, sotto di lui, una sola piega; la sua testa non è appoggiata bene; il moncone è troppo in alto o troppo in basso; bisogna posare il braccio destro completamente inerte su uno strato di bambagia, circondare il braccio sinistro, che si va paralizzando sempre più, di flanella, di doppie maniche, etc.
Bussano. È la suora che porta il caffè nero per Arthur e viene a chiamarmi per la messa: sono le sette e mezza.

Isabelle Rimbaud, sorella di Arthur, alla madre; 4 ottobre 1891.
(da Arthur Rimbaud, Non sono venuto qui per essere felice, Corrispondenza 1887-1891)

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