Memorie

Si possono scrivere libri in qualunque luogo. La parola ispiratrice può anche insinuarsi nella cuccetta di un marinaio a bordo di una nave bloccata tra i ghiacci sul fiume che attraversa una città; e siccome i santi dovrebbero vegliare benigni su noi umili credenti, mi piace fantasticare che l’ombra del vecchio Flaubert - che si credeva di essere (tra le altre cose) un discendente della stirpe vichinga - possa aver indugiato con un certo divertito interesse sui ponti dell’Adowa, un piroscafo di 2.000 tonnellate a bordo del quale, intrappolato dall’inverno inclemente lungo un pontile di Rouen, il decimo capitolo di La follia di Almayer incominciava a prendere forma. Con interesse, dico, perché non era forse quel gentile gigante normanno dagli enormi baffi e la voce tuonante l’ultimo dei Romantici? E non era, nella sua spirituale, quasi ascetica devozione all’arte, una sorta di santo eremita della letteratura?
“Finalmente è tramontato,” disse Nina alla madre, indicando i monti dietro i quali era affondato il sole… Ricordo di aver tracciato queste parole della romantica figlia di Almayer sopra un blocco di carta ingrigita posato sulla coperta della mia cuccetta. Si riferivano a un tramonto nelle isole malesi e si scolpirono nella mia mente insieme a un’allucinata visione di foreste e fiumi e mari, così lontani da quella città commerciale e tuttavia romantica dell’emisfero settentrionale. Ma il flusso di visioni e parole fu bruscamente interrotto dal terzo ufficiale, un giovanotto allegro e poco avvezzo alle formalità, che irruppe facendo sbattere la porta ed esclamando: “Si è creato un bel calduccio, qui dentro."
C’era caldo, infatti.

Joseph Conrad

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