Frammenti d’interiorità

Fu allora che lo riconobbi ufficialmente, che lo chiamai con il suo nome: amore. Fu quando ormai di null’altro mi si riempivano i pensieri e i sogni, i fremiti del corpo e gli aneliti del cuore. Quando ormai l’urgente voglia di rimettere in gioco tutto ciò che io ero, tutto ciò che io possedevo, scorreva libera, senza remore e senza esitazioni. Questo però avveniva pur avendo contro ogni mio logico ragionamento, pur esistendo in tal enorme misura in me solamente. Quel sentimento io lo lasciai libero di crescere, libero seppure mi stesse travolgendo con intense e brevi felicità intervallate con lunghe e terribili ansie, seppure stesse perfino oscurando la mia lucidità. Perché insieme a esso stava crescendo anche una sensazione mai provata, una sensazione indefinibile, difficile da interpretare. Sentivo, infatti, di non essere padrona di quel sentimento. Io lo osservavo, lo analizzavo, lo interrogavo, lo mettevo in luce e in controluce, e sempre più mi convincevo ch’esso fosse nato per rispondere a una chiamata giunta da chissà quali inesplorabili profondità del mio essere. Una pressante chiamata, recante l’imperativo di resuscitarmi a nuova vita. Stava accadendo, infatti, anche qualcosa d’incredibile. In quella mia inarrestabile trasformazione, con la rinnovata e costantemente rinnovabile energia a sostenermi in quella folle corsa a ostacoli verso il tesoro dell’amore, o forse solamente verso il suo miraggio, la paura di sbagliare - e neppure la sua ombra - mai ebbe il potere di sfiorarmi. Come io avessi inconsciamente compreso, fin dall’inizio, che la strada giusta era lasciarmi andare a ciò che mi stava succedendo, senza opporvi resistenza. Come se dell’aver fatto nascere e fiorire quel sentimento né io, e neppure il mio cuore, potessimo vantare il merito. Come se invece fosse proprio l’istinto più sacro, custodito nelle ataviche profondità dell’anima, ad aver imposto al mio sentimento il suo raro e prezioso e ardente sigillo, la sua assoluta benedizione.

G. Cerney

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