Il mio domani

Vivo nell’Illinois, ho trentatré anni e lavoro presso una fabbrica di dentifrici. Non c’è molto da dire su di me: da quando George mi ha lasciata conduco una vita sedentaria e noiosa che farebbe venire il latte alle ginocchia a chiunque la raccontassi.

La mattina il gallo canta all’alba, mi alzo e prendo una tazza di caffè dolce accompagnato da un cornetto comprato la sera prima rientrando dal lavoro. Trangugiata la colazione, mi infilo la divisa ancora umida perché non ha avuto il tempo di asciugarsi la notte, esco di casa salutando Fred, il mio vecchio cane da guardia, e prendo il mio rottame di pick-up che mi porta davanti al cancello della fabbrica. Ormai sono già tre lunghi anni che lavoro per otto ore come avvitatappi in questa maledettissima fabbrica ma, visto che questo impiego è l’unica cosa che mi mantiene e dato che non vedo proposte migliori all’orizzonte, me lo tengo stretto.

Ringraziando il cielo ho Sally, la mia migliore amica, la sorella che non ho mai avuto, l’unica persona capace di allietare le mie giornate. Insomma, Sally è l’amica perfetta, la migliore che si possa desiderare.

Oggi è domenica, non si lavora. Esco fuori ancora in pantofole a prendere la posta di ieri: mi piace il rumore che fa il grano scosso dal vento, quel fruscio è rassicurante. Ancora con la posta in mano, mi accomodo sulla sedia in veranda e aspetto Sally che, come ogni domenica, porta la sua crostata ai mirtilli. Io odio i mirtilli e quindi ogni volta devo far finta che mi piaccia, quando in realtà, giunta la sera, la sua crostata finisce sistematicamente nella spazzatura.

Oggi però è una giornata diversa, Sally non c’è ancora e questo mi preoccupa. Inizio a fantasticare su dove possa essere quando la mia attenzione viene attirata dallo squillo del telefono. Rispondo. È l’ospedale: Sally ha avuto un arresto cardiaco e non ce l’ha fatta. Attacco il telefono, ho un vuoto, cado, mi trascino fino alla porta, esco.

Prendo il pick-up e inizio a guidare. Non so dove sto andando, la musica è al massimo del volume e il piede preme sempre più forte sull’acceleratore. La vista mi si annebbia per le lacrime, mi fermo. Sono di fronte ad una scogliera, piango e urlo; imprecando mi getto a terra, sbatto la testa, svengo. Il risveglio è brusco: una luce bianca mi acceca, capisco di essere in ospedale. Mi dimettono il giorno stesso, torno a casa e mi sdraio sul letto; non riesco a prevedere un domani, è tutto più cupo adesso.

La mattina seguente il gallo canta con un verso stridulo, il caffè ha un sapore amaro, Fred non scodinzola più e quella colorata fabbrica di pasta dentifricia ora è un luogo freddo e oscuro.

Mi rendo tristemente conto che non apprezzi i giorni che hai fino a che non li perdi. E che morirò sola.

Irene Varlaro Sinisi

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