Diario veneziano

Verso la fine di febbraio il bel manto di neve era solo un ricordo incantato e in qualche giorno o momento di sole si respirava nell’aria il fremito di una primavera precoce. In quel periodo arrivò a Venezia Eugenio Montale con la sua indimenticabile compagna. Accettarono con grazia di essere ospiti nella mia casa per i due giorni del loro soggiorno e nonostante attraversassi un periodo di desolante miseria predisposi la più larga delle accoglienze: ogni loro desiderio doveva essere esaudito.
Il primo giorno andammo a colazione all’Harry’s Bar con Pierantonio e il grande poeta, forse tonificato dall’ottimo Soave che si beve da Cipriani, ci raccontò della sua tradita vocazione da baritono. Accennò anche senza alcun imbarazzo – con una certa perplessità dei presenti – l’aria di Figaro del Barbiere di Siviglia per persuaderci della qualità della sua voce e alla fine della colazione ci avviammo a godere il mite calore del primo pomeriggio lungo la Riva degli Schiavoni. Le giornate si erano fatte più lunghe, il sole splendeva ancora alto sulla Chiesa del Redentore illuminando il cielo senza nubi con i colori dolcissimi di Giovanni Bellini o di Cima da Conegliano. La moglie di Montale, il “caro piccolo insetto che chiamavano mosca e non so perché” era contenta. Aveva gradito il pranzo, le affettuose cortesie di cui la avevamo tutti spontaneamente colmata e lei ce ne era riconoscente, con l’intenso piacere di vivere che si gode anche nel breve spazio di un attimo e si vuole dividere con chi ce lo ha procurato. Mi prese sottobraccio e guardandomi con le pupille semicieche che vedevano sempre al di là dell’apparenza delle cose mi sorrise con un intenso slancio di affetto e mi disse che stava molto bene. Fu una frase che non dimenticai e non dimenticherò mai, e ogni volta che per rivederla e ricordarla rileggo le pagine di Xenia un nodo di tenerezza e di commozione mi stringe alla gola e penso come la sola vera ragione di una vita vissuta insieme sia il poter scrivere di chi ci è stato accanto: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino.
Così, quell’inverno freddo e solitario trascorse sin troppo velocemente, graffiandoci remotamente il cuore, e ora, a diciannove anni di distanza, non riesco a ricordarlo senza un acuto rimpianto.

Valerio Zurlini, Pagine di un diario veneziano: Venezia, 6 novembre 1981

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