Lui e io

Cosa ci siamo detti quella sera, per via Nazionale, non lo so ricordare; niente d’importante, suppongo; era lontana da me mille secoli l’idea che dovessimo diventare, un giorno, marito e moglie. Poi ci siamo persi di vista; e quando ci siamo di nuovo incontrati, non rassomigliava più a Robert Donat, ma piuttosto a Balzac. Quando ci siamo di nuovo incontrati, aveva sempre quei camiciotti scozzesi, ma ora sembravano, addosso a lui, indumenti per una spedizione polare; aveva ora la barba, e in testa lo sbertucciato cappelluccio di lana; e tutto in lui faceva pensare a una prossima partenza per il Polo Nord. Perché, pur avendo sempre tanto caldo, sovente usa vestirsi come fosse circondato di neve, di ghiaccio e di orsi bianchi; o anche invece si veste come un piantatore di caffè nel Brasile; ma sempre si veste diverso da tutta l’altra gente.
Se gli ricordo quell’antica nostra passeggiata per via Nazionale, dice di ricordare, ma io so che mente e non ricorda nulla; e io a volte mi chiedo se eravamo noi, quelle due persone, quasi vent’anni fa per via Nazionale; due persone che hanno conversato così gentilmente, urbanamente, nel sole che tramontava; che hanno parlato forse un po’ di tutto, e di nulla; due amabili conversatori, due giovani intellettuali a passeggio; così giovani, così educati, così distratti, così disposti a dare l’uno dell’altra un giudizio distrattamente benevolo; così disposti a congedarsi l’uno dall’altra per sempre, quel tramonto, a quell’angolo di strada.

— Natalia Ginzburg, Lui e io (da Le piccole virtù)

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