L’urlo e il furore

Quando lo cominciai non avevo piani precisi. Non stavo nemmeno scrivendo un libro. In precedenza avevo scritto tre romanzi, con sempre meno facilità, piacere o ricompensa e guadagno. Il terzo lo offrii a destra e a manca per tre anni durante i quali lo portai di editore in editore con una sorta di testarda e sempre più debole speranza di giustificare almeno la carta usata e il tempo impiegato per scriverlo. Immagino che a un certo punto la speranza sia morta, perché un giorno fu come se una porta si fosse chiusa in silenzio e per sempre tra me e tutti gli indirizzi e i programmi dei miei editori e dissi a me stesso: Ora posso scrivere. Ora posso davvero scrivere. Al che, io che avevo tre fratelli e nemmeno una sorella, destinato a perdere la mia prima figlia ancora piccola, iniziai a scrivere di una ragazzina.
Al momento no capii che stavo cercando di fabbricare la sorella che non avevo e la figlia che avrei perso, benché la prima si potesse intuire nel dettaglio che Caddy aveva tre fratelli forse ancor prima che scrivessi il suo nome su un foglio. Iniziai a scrivere di un fratello e una sorella che giocano a schizzarsi d’acqua in un ruscello e la sorella cadeva e si infradiciava i vestiti e il fratellino piangeva, temendo che la sorella fosse spaventata o magari ferita. O forse sapeva che il bambino era lui e che lei avrebbe disertato qualunque battaglia d’acqua per rassicurarlo. Quando lei lo fece, quando lei abbandonò la battaglia d’acqua e si chinò su di lui con i vestiti fradici, fu come se l’intera storia, che nella prima parte è tutta raccontata da quello stesso bambino, esplodesse sul foglio davanti a me.

— William Faulkner nell’introduzione a L’urlo e il furore del 1933.

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