Mai nel mio nome

Mi sveglio con uno strano rumore negli occhi. La porta della stanza viene picchiata con forza dall'esterno. All'improvviso si apre ed entra una vecchia. È mia nonna. Mi guarda col suo occhio folle e i capelli che brulicano di serpi e di vermi, mi grida suonando il violino che dobbiamo far presto, che nessuno ci aspetterà più, che dobbiamo correre, arrivare in tempo per il giudizio finale che è oggi, per non rischiare di non essere dannati e passare il resto dell'eternità su questa porca terra che non verrà mai distrutta, se non per cause naturali.
La seguo vestito di un manto scarlatto che mi avvolge le gambe, la vista si annebbia, di fuori, il sole accecante la blocca in una cappa di bianco dolore. Corriamo per tutto il giorno e anche la notte. Mia nonna davanti a me vestita di stracci saltella felice e suona il suo maledetto violino arancione, mentre io arranco dietro di lei, e ansimo, le dico di andare avanti che non ce la faccio più. Neanche si volta a guardarmi.
Crollo con la faccia sull'erta bagnata. Sotto il pelo dell'erba, seicentoventisei nani trasportano palline di vetro intrecciato e bacchette di diaspro veneziano. Mi volto sulla schiena con uno sforzo immane e sono circondato. Attorno a me è un cerchio di api ronzanti che mi pungolano ed aprono il fianco da dove esce linfa vitale, attorno alberi in cerchio nel buio, attorno ancora intravedo un muro, alto che il sole non possa passare, circolare, grigio nel nero bluastro della notte dei tempi. Le cascate ai quattro angoli della strada iniziano a scrosciare la loro musica di limpida acqua liquida e bagnata. Tra poco i pesci cominceranno a risalirle, tranne i salmoni. Tra poco le acque diverranno rosse del sangue dei secoli. Tra poco sorgeranno nuove montagne, e nuovi fiumi convergeranno nella terra sotto di me, squarciandola come con una ferita ulcerosa. Si aprirà una fossa che inghiottirà ogni cosa, i nani verranno spazzati via dalla furia del lampo assieme alle loro palline e bacchette luminose, ribollirà tutto come in un immenso calderone fumante, si costruirà una nuova, grande città, si taglierà marmo per le sue fondamenta, mattoni per le sue case, e fango per la sua rocca. Dalla cima gorgoglierà un fiume bianco su cui voleranno cavalli dalle ali dorate, si risolveranno tutti i problemi di trasporti e le abiteranno gli uomini che si son rifiutati di essere giudicati, sarà elevato un pennone, e da questo penzolerà impiccato il mio Zarat-hustra, ultimo dio ad essere stato innalzato e deriso.
La terra cerca di mangiarmi nella sua fame insaziata, e mi rivolto dentro di essa finché ho negli occhi gli steli dell'erba umidiccia che tremano. Qualcosa colpisce le ciglia e l'acqua a scorrere prende. Pian piano, davanti al mio viso spremuto contro il terreno si apre un piccolo solco di fiume, che si viene ingrandendo, e mi risucchia verso il suo centro. Sento il ventre rientrare nel corpo, diventare cervello, poi occhi, e gli occhi mi cadono in questo corso impetuoso e limpido che scorre. Ho perduto la mia sessualità e la mia fede, ho perduto tutto me stesso, e solo ora mi ritrovo davvero. Acqua tra le acque, sono anch'io ruscello ruggente e vitale. E mentre scorro tra di esse, un salmone mi si avvicina e prende a pisciarmi addosso.

Michele Di Schino

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