Vino e donne dal 1913

Saverio Minozzi - Vino e donne dal 1913

Piccola storia di una città industriale e della sua ultima osteria

La decisione di chiudere Fortunato l'aveva presa poco meno di una settimana prima, subito dopo che gli ultimi clienti si erano allontanati lungo il vicolo. Insieme a Teresa avevano fatto il giro degli interruttori, sprangato la porta, asciugato gli ultimi bicchieri, poi lei aveva sistemato la brace del fuoco e l'aveva raggiunto al tavolo centrale. Se ne erano stati per un po' così, seduti davanti a uno dei tanti fiaschi vuoti, ognuno con lo sguardo perso dietro chissà cosa, illuminati solo dalla luce al neon dell'insegna della farmacia dall'altro lato della strada. Intorno tutto era immobile, solo le ombre seguivano il ritmo delle fiamme del camino, l’avresti detta una danza antica, senza musica. Succedeva spesso dopo la chiusura che se ne stessero per un po' in quel modo, come per lasciare che si spegnesse l'eco della serata, roba di bere un goccio prima di andare a dormire, niente di più. Quella sera però era successa una cosa strana: Fortunato, nel suo girare lo sguardo intorno, si era sorpreso per un istante a guardarsi le mani e quello che aveva visto lo aveva lasciato quasi di sasso, stava lì che si guardava le mani perplesso e quasi non ci credeva, perché quello che vedeva erano le mani di un vecchio, ed erano le sue.
Quando aveva alzato lo sguardo era come se fosse stato tolto un velo e tutto fosse invecchiato di colpo, diventato antico. C'era stato un bel po' in quel modo, come stupito, poi aveva incrociato lo sguardo di lei e tutto era stato immediatamente chiaro per entrambi. Quello che c'era da dire se l'erano detto in silenzio, non servivano parole: era la fine, tutto lì, si trattava solo di prenderne atto.
Fortunato era uno che andava subito al succo della faccenda, non c'era da perdersi dietro a nostalgie inutili, tanto valeva chiuderla lì, si era detto, con stile.
- Quanto vino è rimasto?
-... stasera?
- No, nelle damigiane, quanto vino abbiamo in tutto?
- Boh... un po', non so.
- Meglio così, non lo ricomprare. Silenzio.
Lui si era tirato indietro sullo schienale e aveva aggiunto che non era male come modo di chiudere la faccenda, gli piaceva.
-Perché?
- Perché quando finisce il vino in un'osteria è come se l'incantesimo si rompesse per sempre, non puoi far finta che non sia successo, non è come rimettere benzina in una macchina, semplicemente finisce, tutto lì. Potresti anche ricomprarlo, ma non sarebbe mai più come prima.
-E allora?
- E allora aspetteremo che finisca, e quando avremo versato l'ultimo bicchiere vorrà dire che basta: carte sul tavolo e fine del bluff.
-Che bluff?
-... è un modo di dire. Come quando dici fine della storia, mica c'è una storia, oppure alziamo le tende o...
-Fine del bluff.
-Esatto.
-Così?
- Così, semplicemente.
- Insomma chiudiamo.
-L'idea è quella.
Teresa aveva fatto una smorfia strana, poteva anche essere un sorriso.
- Sai? Una volta ho sentito il figlio di Sante, quello che scrive musica, lo conosci, no? Che poi sembra che di musica non ne capisca nulla, comunque la scrive... e la faccenda strana è che gli viene anche bene, vai a capire come fa. Comunque... sarà stato un annetto fa, o giù di lì, se ne stava a un tavolo, mezzo ubriaco, con non so quale ragazza, se ne stava lì e quello che diceva era bello, lo diceva come se fosse la cosa più banale del mondo, ma se ci pensi non era una roba da poco, lo diceva così, ridendo, ma quello che diceva era che nella vita puoi scegliere solo una cosa: la musica su cui ballare. Tutto il resto ti corre via, lo controlli male, ma la musica no, quella è sincera, diceva. E sta a te decidere la tua.
- Se ci pensi è così: pause e suoni, nient'altro.
-Già.
- E comunque non è stato un bluff.
- Non intendevo quello.
Ci sarebbe stato almeno il tempo per dire addio a quel mondo che avevano inventato, sarebbe stato come salutare ogni gesto familiare, assaporarlo un'ultima volta, ogni sguardo o risata che riempiva le serate, ogni colpo di tosse, voce o imprecazione, mentre il vino diminuiva lentamente nelle damigiane. Ogni bicchiere poteva essere l'ultimo e allora sembrava che in quel bicchiere ci stesse tutta la loro storia. Forse era veramente un bel modo di uscire di scena, oppure era solo un modo per prendersi un attimo in più, perché no? Il fatto è che in quel modo tutto assumeva un vago sapore di precarietà, di destino, e Fortunato ci andava pazzo per quella roba lì.
Era una storia niente male, la loro, di quelle che ci pensi sempre un po' prima di raccontarle, le senti speciali, capisci che sarebbe sbagliato buttarle via. C'era passato un mondo in quell'osteria, chiudere voleva dire farlo diventare storia, accettare che quello non era più il loro tempo. Quando hai fatto l'oste per più di settant' anni non è che ti viene in mente molto altro da fare.
Quella sera, mentre salivano le scale che portavano fino alla zona del vecchio bordello dell'abruzzese, e che adesso era casa loro, lui aveva tirato fuori una risata sgangherata. Stava lì, appeso alla ringhiera, col fiatone e tutti i suoi anni nelle ginocchia, e non la fini va più di ridere.
- Come minimo l'ultimo bicchiere se lo beve l'ingegnere! Ci misero tre giorni a finirlo, il vino.

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