Come il Sole e la Luna

Come il Sole e la Luna

Capitolo 5

Arrivò il giorno della partenza. Elena avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa piuttosto che trascorrere due intere settimane con i suoi genitori.
Durante il viaggio in auto si vide sfilare davanti agli occhi un’infinità di cose e paesaggi: colline, campi di girasole, di grano, fabbriche, pascoli, e poi, finalmente, l’agognata lastra azzurra, il mare.
- Siamo arrivati, l’albergo è questo. Scendere!
Roberto, pieno di energia, scese dall’auto per aprire il portabagagli.
Elena e Maria accorsero ad aiutarlo e, valigie alla mano, si diressero verso l’entrata.
L’albergo era un edificio giallo chiaro, in parte ricoperto di rampicanti e circondato da pini e da varie piante ornamentali. C’erano tavoli e sedie davanti alle vetrate, attraverso le quali si intravedeva un’ampia sala da pranzo. Una grande conchiglia appesa alla parete d’ingresso annunciava che Elena e la sua famiglia avrebbero trascorso le due settimane seguenti all’ “Hotel Vistamare”.
- Buongiorno! I signori Guerrini, giusto?
- Sì, siamo noi. Abbiamo prenotato per due settimane... corrisponde?
- Sì, perfettamente. Le vostre stanze sono pronte, potete accomodarvi. Terzo piano, camere numero 303 e 305. I documenti potrete lasciarli quando vi sarete sistemati.
Salutarono l’efficientissima signorina della reception e salirono al piano. A Elena spettò una camera molto ampia, con il balcone che affacciava sul mare. Il letto era soffice, le lenzuola fresche di bucato. Alle pareti erano appesi quadri che raffiguravano l’hotel da diverse angolature e bellissime foto di tramonti.
Complessivamente era una camera raffinata, contrariamente a come se l’era aspettata. L’aveva, infatti, prenotata suo padre, che non spiccava certo per buon gusto.
Disfece subito le valigie e depose gli abiti nei cassetti, dopodiché uscì in balcone a dare un’occhiata alla spiaggia. Era quasi l’ora di pranzo. Molte persone stavano lasciando gli ombrelloni, altre mangiavano sedute sulle loro sdraio, altre ancora chiamavano i bambini per portarli via dal sole, che aveva raggiunto il punto più alto.
A Elena non piaceva la spiaggia affollata, preferiva andarci quando non c’era più nessuno, verso sera, quando c’era qualcosa di magico dove la linea del mare incontra il cielo.

Nel pomeriggio decise di visitare il paese. Le parve strano che i genitori non si fossero lamentati, come facevano sempre, del fatto che lei preferisse starsene da sola, che con lei non si potesse condividere nulla, che non si potesse mai fare niente tutti insieme, neanche una passeggiata sulla battigia. Di solito non lasciavano che si avventurasse da sola per posti che non conosceva.
Il paesino le apparve degno di essere visitato, nonostante fosse semideserto. Era il classico esempio di un paese che in inverno è quasi disabitato e d’estate riprende a vivere, ma gli rimangono attaccati i segni della trascuratezza e della scarsa manutenzione, con l’intonaco delle case venuto giù, i vasi spaccati e qualche persiana scardinata.
Salita sulla parte più alta, a Elena le si apri un panorama magnifico: se piegava la testa verso il basso poteva vedere il mare, che tranquillo accarezzava gli scogli, se l’alzava vedeva un infinito cielo terso che si stava a poco a poco impregnando di arancione.
Si accorse, così che il sole stava per tramontare e di corsa tornò indietro. Una volta arrivata alla spiaggia si tolse le scarpe. Al primo contatto ritirò velocemente il piede, la sabbia era ancora troppo calda.
Soffiava un leggero alito di vento che le alzava dolcemente la gonna e le faceva svolazzare in avanti i lunghi capelli. Prese le scarpe in mano e si mise a camminare per la battigia. L’acqua e il cielo sembravano fondersi e i raggi solari, ormai stanchi, riflettevano sul mare colori tenui. A quel punto le tornò in mente una poesia che aveva letto nei suoi giorni più tristi:

Ho sognato che camminavo
in riva al mare con il Signore
e rivedevo sullo schermo del cielo
tutti i giorni della mia vita passata.
E per ogni giorno trascorso
apparivano sulla sabbia due orme:
la mia e quella del Signore.
Ma in alcuni tratti ho visto
una sola orma, proprio nei giorni
più difficili della mia vita.
Allora ho detto: “Signore,
io ho scelto di vivere con te
e tu mi avevi promesso
che saresti stato sempre con me.
Perché mi hai lasciato solo
proprio nei momenti più difficili?”
E lui mi ha risposto:
“Figlio mio, tu lo sai che ti amo
e non ti ho abbandonato mai:
i giorni nei quali
c’è soltanto un ‘orma sulla sabbia
sono proprio quelli
in cui ti ho portato in braccio”.*

Elena, ripetendo mentalmente quei versi, sentì l’impulso di voltarsi. Le parve davvero di vedere una sola orma, e pensò che quella era una fase davvero difficile della sua vita. Si commosse. Forse Dio la stava tenendo in braccio, in quel momento di inquietudine, Si chinò sulla sabbia e toccò un’orma con le dita tremanti. Le salirono delle lacrime agli occhi e le sembrò, come nella poesia, di vedere sullo schermo del cielo tutti i giorni più difficili della sua vita. E, guardando la sabbia gialla, desiderò la notte per poter essere avvolta dal suo mantello nero. Ma nemmeno quello sarebbe riuscito a nascondere il suo dolore. Lo avrebbe nascosto agli altri forse, ma non a sé stessa.
Continuò a camminare e scorse un po’ più avanti un luccichio. Chinò la testa e si piegò sulle ginocchia per vedere cosa fosse. Era una conchiglia quasi trasparente, dal colore simile a quello di un’ametista. Ne guardò estasiata la forma, passò le dita sulla superficie e si accorse che aveva un forellino.
- Com’è bella! La regalerò a Michele, così potrà portarla come un ciondolo!
Ripensando a lui il suo cuore mancò di un battito, di un altro ancora e poi sembrò scoppiarle nel petto. Le nacque tra le mani una gran voglia di scrivergli una lettera, di mandargli una cartolina con un tramonto come quello che aveva davanti.
In un negozio vicino all’hotel ne scelse una con cura poi, una volta nella sua stanza, tirò fuori carta e penna e si mise a scrivere.

Caro Michele,
forse avresti preferito una mia telefonata, ma sai che ho un debole per lo scrivere. Scrivo di tutto, di cose liete e di cose brutte. La carta mi è amica e non mi contraddice mai, apprezza il mio stile, anche se non perfetto.
Se scrivo una parolaccia non mi sgrida, non si scandalizza, anzi, rimane ferma e segue ogni lettera con attenzione. Se poi sbaglio e l’accartoccio non si arrabbia, non si offende. Chissà come sarebbe la vita se anche le persone fossero fatte di carta...
Corro con la fantasia. T’immagino con questo foglio in mano e sono sicura che stai sorridendo, e anche gli occhi ti sorridono. Come sei bello ora! E se queste frasi non fossero su una lettera ma pronunciate dalle mie labbra mi tapperesti la bocca.
Qui non mi diverto, perché sono sempre e solo in compagnia di me stessa, non so cosa fare... e allora, essendo sola, mi torni in mente tu perché sei un tesoro che il tempo non riuscirà a strapparmi. Se per caso qualcuno fosse capace di tua simile gesto, farebbe meglio a trattarti bene, perché se non lo facesse sarei lì io a difenderti!
Michele, voglio che tu stia con me, ho bisogno di te al mio fianco.
Ma a questo sentimento non so dare un nome. Cercalo tu fra queste parole e quando lo avrai trovato ti prego di dirmelo.
Allego alla lettera una cartolina con un tramonto che somiglia molto a quello che ho appena visto.
Ti abbraccio forte
Elena

PS. Ho trovato un oggettino molto “simpatico” che ti darò al mio ritorno.


Soddisfatta, chiuse il foglio in una busta e scese nella sala da pranzo. I genitori erano già al tavolo.
- Hai fatto tardi. Dove sei stata?
Il padre non abbandonava mai il suo tono inquisitorio.
- Sono tornata un’ora fa. Ho visitato il paese e devo dire che è piccolo, semplice, ma accogliente. Mi piacerebbe se anche la nostra città fosse così tranquilla, con poca gente, ma con tanto mare!
Parlò con un entusiasmo superiore a quello che realmente provava per alleggerire l’atmosfera e per trovare una giustificazione plausibile al suo ritardo,
- Smettila di dire stupidaggini!
Elena non osò continuare il discorso e, scoraggiata, fissò il piatto vuoto. Prese la bottiglia dell’acqua e se ne versò un po’ nel bicchiere.
- E cerca di non fare pasticci almeno qui. Non farti riconoscere subito.
Elena non riuscì più a trattenere la rabbia.
- Perché mi devi trattare sempre così? Che cos’ ho fatto? Non ho fatto niente!
Roberto, innervosito dal tono alterato della figlia, le diede un sonoro schiaffo sul viso.
Elena, d’un tratto, si fece pallida, le mani cominciarono a tremarle e sentì il cuore battere in modo irregolare. Il malessere tardava a scomparire, quindi fu chiamata un’ambulanza che la portò in ospedale.

Il medico che la visitò si rivolse ai genitori con tono serio:
- Come penso sappiate, vostra figlia ha dei problemi dì cuore congeniti. È importante che assuma quotidianamente dei farmaci specifici, ma credo che ultimamente noni lo abbia fatto con costanza.
- Di solito sono io che le ricordo di farlo, ma in questi ultimi tempi non l’ho più fatto… sì, lo so, ho sbagliato, ma ormai la considero una ragazza matura, un donna quasi…
- Signora, ci stia più attenta lo stesso. Non è successo nulla di irreparabile, ma, se dovesse continuare con queste dimenticanze, le cose potrebbero peggiorare. Ora la faremo riposare un po’.
Ma Elena non sentiva il bisogno di riposare, al contrario, voleva potersi alzare e tornare in hotel.
Cercò di ripensare all’accaduto e, invece che la rabbia, la sensazione predominante era la leggerezza. Era stato per lei come uno sfogo, una fuga dalla realtà che le aveva permesso di scrollarsi di un peso.

* L’autrice di questa poesia, per molto tempo attribuita ano anonimo brasiliano e nota con il titolo “Ho fatto un sogno”, è Margaret Fishback Powers (Orme sulla sabbia, AMP, Padova 2005).

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