La mia Antonia

Mi sedetti in mezzo all'orto, dove avrei potuto vedere un serpente se si avvicinava, e m'appoggiai a una zucca gialla, calda. Alcuni cespugli di uvaspina carichi di frutti crescevano lunghi i solchi e, sollevando i cappucci che li ricoprivano, ne mangiai un po’. Attorno a me cavallette gigantesche, grandi almeno il doppio di quelle che conoscevo io, s'abbandonavano ad acrobazie folle in mezzo al fogliame secco. I gopher galoppavano su e giù per il terreno arato. Lì, in fondo alla valletta riparata, il vento soffiava leggermente, ma lo sentivo cantare mormorando il suo motivo e vedevo ondeggiare l'erba alta. Sotto di me la terra era calda, e calda tra le mie dita che la sbriciolavano. Strani insettini rossi uscivano fuori e si muovevano tutto intorno i lente squadre. Avevano i dorsi lucidi vermigli, a puntini neri. Rimanevo immobile. Non avveniva nulla. Non aspettavo che avvenisse nulla. Ero un qualcosa che giaceva sotto il sole e lo sentiva, come una zucca, e non volevo essere nulla di più. Ero completamente felice. Forse questa è la sensazione che si prova quando si muore e si diventa parte di un tutto, sia sole o aria, bontà o conoscenza. A ogni modo questa è la felicità: dissolversi in qualcosa di completo di grande. E quando questo avviene, avviene naturalmente come il sonno.

—  Willa Cather

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