La guardiana di Ulisse

Una malata di Alzheimer un angelo e una domanda di Alessandro Borio

Un angelo all’inferno

Dal buio che lo circondava emergevano improvvisamente, come fatue falene impazzite, gemiti profondi e monotonali, più scuri della notte che li avvolgeva, i quali concorrevano, unendosi e alternandosi in un’angosciosa staffetta, a formare un panorama sonoro particolarmente disperato.

Non si potevano chiamare grida; le grida sono espressioni di dolore che comunque hanno una connotazione di denuncia del torto subito o di richiesta di aiuto.

Si grida per farsi sentire, per ricevere un ausilio, perché comunque si ha nell’animo ancora una scintilla di speranza; quelle che raggiungevano le orecchie dell’angelo, invece, erano voci di una disperazione rassegnata, rivolte a nessuno e forse emesse senza alcun fine logico, se non quello di riempire in qualche modo l’assurda solitudine che regnava sovrana in quel luogo.

In quell’oceano di buio, l’unica cosa che appariva chiara a Ulisse Mantovani era che, approfittando del suo sonno, Giancarlo era riuscito nel suo intento: l’aveva trasportato all’inferno!

Il secondo pensiero che prese forma nella mente dell’angelo fu la consapevolezza che, una volta chiusi alle spalle di un’anima, i cancelli dell’inferno non possono più essere aperti da nessuno se non dal loro oscuro signore in persona!

Come aveva potuto essere così stupido?!

Addormentarsi nel creato!

La prima volta non gli era successo nulla, ma aveva dormito sul fondo dell’oceano, con chilometri d’acqua sopra di lui, e l’acqua, ora che ci pensava, è il simbolo del battesimo, è l’antitesi dell’inferno, è da sempre una protezione contro il male, rappresenta l’attuazione stessa della concordia assoluta, essendo formata da idrogeno e ossigeno che convivono senza esplodere!

In quella vigna, però!

Mentre si rigirava nella mente queste amare recriminazioni, l’attenzione dell’angelo fu calamitata dall’improvviso silenzio che aveva preso il posto dei precedenti gemiti.

Il silenzio non durò però molto, un sibilo gelido gli entrò nelle orecchie e per la prima volta nella sua esistenza Ulisse Mantovani poté sentire chiaramente la voce velenosa del principe del mondo, un suono così doloroso per la sua anima che fece fatica, ascoltandolo, a non svenire.

Provò a coprirsi le orecchie con le mani ma non riuscì a schermare quel sommesso ma penetrante suono e fu così costretto ad ascoltarne le parole, con il solo risultato di aggiungere altra angoscia all’oceano nel quale già stava annegando la sua anima:

“Mi hai dato del filo da torcere, Ulisse Mantovani!

Ero certo però che prima o poi tu avresti commesso l’errore che di solito porta tutti qui: quello di dimenticarti di me!

Non essere troppo duro con te stesso, povero angioletto ingenuo, non sei mica l’unico qui che si è perso perché si è scordato della mia presenza o perché si è addirittura convinto che io non esistessi!

A onor del vero devo dire che io ho sempre lavorato per convincere tutti della mia non esistenza!

Sai, dal Medioevo in poi non è più stato per me un buon affare che la gente parlasse troppo di me; chi pensa di non avere nemici non organizza alcun tipo di difesa e quindi diventa vulnerabile a qualsiasi attacco!

Adesso comunque per te è inutile recriminare, non c’è più speranza, ho chiuso io stesso, come ben sai, i cancelli infernali dietro le tue spalle e l’abisso che circonda l’inferno non può essere superato in nessun modo senza il mio permesso!

Per concludere e per aggiungere altra angoscia alla tua anima, caro angioletto maledetto, ti dirò che io non ti darò mai quel permesso; sei mio e lo resterai per l’eternità, Ulisse Mantovani, e stavolta neanche quella lurida demente di Maria Merlo potrà più fare qualcosa, se non crepare impotente nel suo squallido letto!”.

Satana tacque e i lamenti ricominciarono a popolare la mente di Ulisse riempiendola di disperazione.

Nessun pensiero di speranza riusciva più a sbocciare nella testa dell’angelo.

Non che Ulisse avesse smesso di provare a sperare, solo che ogni piccolo germe di quella speranza che era stata la sua luminosa compagna fino a poco tempo prima veniva immediatamente soffocato da mille gemiti sozzi di disperazione e non riusciva a sbocciare.

Del resto l’angelo lo aveva più volte sentito in paradiso: nessuna parola o pensiero di speranza possono esistere all’inferno, le fondamenta stesse di quel luogo di perdizione sprofondano nella disperazione che deriva dalla lontananza dal Creatore, e la speranza avvicina a Dio!

“Una sola parola di speranza, se avessi la forza di pensarla!” gemette Ulisse.

Facendosi forza infilò una mano in tasca cercando la sua Bibbia, ma invano!

Evidentemente era stata la prima cosa che gli avevano tolto prima di trascinano nell’abisso.

Anche la corona del rosario che era stata sua compagna per tutta la sua esistenza era sparita!

Gli avevano tolto tutto, non c’era più nulla da fare, gli avevano tolto tutto quello che aveva.

A occhi chiusi Ulisse cedette al dolore e iniziò a piangere: quel mare di gemiti maledetti che lo circondava gli impediva anche di pregare, e una creatura che non riesce a pregare è perduta!

Poco alla volta, dalla mente di Ulisse non uscirono più pensieri, ma solo altri gemiti profondi e monotonali, più scuri della notte che li avvolgeva.

Il maligno non poteva però accontentarsi di tenere all’inferno Ulisse Mantovani; così iniziò a tormentarlo, a farlo soffrire, sottoponendolo alla tortura più dolorosa e insopportabile per un angelo: gli mandò accanto legioni di dannati e in particolare tutte le anime perdute dei bestemmiatori che in quel momento popolavano l’inferno.

Ognuna di quelle anime iniziò a bestemmiare e vituperare il Nome dell’Eterno e tutte quelle parole maledette, raggiungendo l’anima dell’angelo, gli provocarono sofferenze inimmaginabili.

Già in vita Ulisse aveva odiato la bestemmia con tutte le sue forze e aveva preso l’abitudine di recitare un Padre Nostro ogniqualvolta le sue orecchie ne sentivano una.

Ora però la sua mente era troppo piena di disperazione anche per riuscire a ricordare le parole di quella stupenda preghiera!

Così, per evitare di continuare ad ascoltare le parole blasfeme, l’angelo decise di arrendersi, di lasciar spegnere la scintilla del Divino che brilla in ogni anima beata o comunque non perduta.

Sarebbe diventato anche lui un’anima dannata, avrebbe ceduto alla volontà del maligno, ma almeno quella legione maledetta avrebbe smesso di bestemmiare il nome del suo Dio!

Il freddo che lo circondava iniziò così a entrargli dentro e a gelargli l’anima.

Ormai rassegnato l’ angelo si rimbocco inutilmente il bavero, mise le mani in tasca e si lasciò sprofondare nell’abisso di disperazione che lo attraeva.

Con l’ultimo barlume di coscienza Ulisse Mantovani iniziò a spegnere la sua scintilla divina lasciando che il gelo iniziasse a possederlo da dentro.

Gli arti gli si contrassero Facendogli stringere le mani, poi…

qualcosa...

in mano.. in tasca...

Liscio... cedevole.., forse...

Carta!

Carta… una parola che nella sua mente riuscì a emergere dal tuono di bestemmie, carta!

Estrasse qualcosa dalla tasca.

Con uno sforzo immane riuscì ad aprire gli occhi.

Dal buio apparvero fioche e fluorescenti alcune parole scritte su dei fogli di carta che fino a quel momento erano rimasti nascosti nelle tasche di Ulisse.

L’ atto di leggere può essere un automatismo, può innescarsi anche se la mente è zeppa di dolore, e Ulisse lesse: lettere prima senza senso, poi sillabe e infine parole e frasi.

Lesse mentalmente prima e poi con un filo di voce.

Quelle frasi sembrarono rimbombare in quel buio, cariche di una potenza che trascendeva la stessa melma infernale, e con l’ineluttabilità del tuono che squarcia il cielo estivo così suonarono:

“A un nipote che non sapevo di avere, a un bambino che non sapevo di amare, mentre aspetto di diventare nonna, sentendo nel cuore che lo sono già!”.

Le fondamenta degli inferi furono scosse; le bestemmie si tramutarono in gemiti di disperazione e poi anche questi furono coperti dalle grida di dolore di demoni e dannati che si contorcevano tappandosi le orecchie con le mani.

La voce dell’angelo iniziò a caricarsi della propria eco e diventò un tuono, un rombo potente e inarrestabile.

L’inferno stesso iniziò a tremare come scosso da un potentissimo terremoto!

Un ordine che non avrebbe mai dovuto essere dato schioccò allora come una frustata e in tutti i gironi si udì la voce dello stesso principe del male urlare:

“Sputatelo fuori, presto, prima che ci distrugga!”.

I cancelli furono prontamente spalancati, l’abisso colmato e Ulisse Mantovani fu vomitato fuori dell’inferno.

Sporco, mezzo congelato, estremamente confuso, ritornò a “riveder le stelle”.

Intorno a lui nuovamente la vigna sulla collina; a terra, nel luogo dove si era addormentato, giaceva la sua Bibbia. La raccolse con la mano sinistra, la ripulì passandola sul fianco della giacca e se la rimise delicatamente in tasca. Anche la sua corona del rosario giaceva poco lontano; se la mise al collo, poi dolorante si alzò, tossì, e si guardò la mano destra ancora rattrappita: stringeva un notes sgualcito, sulla prima pagina i pensieri che aveva letto nel buio della perdizione. Li riguardò e ne capì il senso: era la dedica scritta da Maria Merlo a Maurizio, le parole che precedevano la favola che la donna, nel sogno di Ulisse, aveva scritto al bimbo addormentato.

Non avevano potuto levargliele perché ancora non stavano nel mondo reale quando lo avevano perquisito mentre dormiva.

Era un messaggio di speranza, lui lo aveva letto all’inferno e l’inferno era stato costretto a ripudiarlo!

“Nessuna parola o pensiero di speranza possono esistere all’ inferno, le fondamenta stesse di quel luogo di perdizione sprofondano nella disperazione che deriva dalla lontananza dal Creatore e la speranza avvicina a Dio!” disse ad alta voce Ulisse mentre spiccava il volo scoppiando poi in una risata che fece sorgere il sole da dietro le colline ancora nere di notte.

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