Il tempo di Leroy Wood

Piantai quell’asse di legno usando tutta la forza possibile mentre la terra umida urlava. Radici, minuscoli sassi e tutto ciò che della vita è inizio si spezzava o si muoveva per far spazio al nuovo elemento che penetrava inesorabile sotto la mia spinta. Avevamo deciso, io, Johnny e Turner, di costruire una piccola casa di legno. Quel giorno era grigio. Proprio come nel momento in cui scrivo una coltre di nuvole irregolari copriva il cielo rivestendo di chiaroscuri ogni pensiero, ogni profumo, ogni vivere dei viventi. Intorno a noi piccole dune erbose rendevano l’orizzonte urbano irregolare creando una contrapposizione tra una quiete odorosa di linfa e il rumore che un agglomerato cittadino presuppone. Laggiù gli alti palazzi nascondevano vissuti uguali nei gesti, nelle gioie e nelle paure.

Ci trovavamo nel “pratone”, così chiamavamo quella piccola oasi ai margini della città. Tutto ciò che accadeva intorno a noi scriveva a nostra insaputa, nella parte più recondita dei nostri pensieri, un libro di cui noi, a distanza di anni, potemmo rileggere solo poche ed insignificanti frasi. Ma è sempre così: il mondo parla solo alla poetica creatura che in noi dorme, e nulla di più che un quadro sbiadito ricordiamo. Sbiadito e mutato.

Le assi piantate dovevano essere quattro, una per ogni angolo, a sorreggere la fantasia con la quale quel grigiore si colorava inevitabilmente di sogni. Le piantammo una dopo l’altra trovandoci tacitamente d’accordo sull’approssimazione delle misure. A giudicare dalla distanza tra i pali il risultato finale sarebbe stato perfettamente in linea con le aspettative della nostra inesperienza nel campo dell’edilizia. La casa sarebbe stata forse troppo grande, o forse troppo piccola. Le misure, durante quell’età, devono ancora confrontarsi con la sproporzione di un ego che non è mai fatto per il mondo terrestre.

Turner disse qualcosa sul guardiano del pratone. Fece congetture sulla durata dei pali appena piantati facendo presente che il guardiano non ci avrebbe permesso di continuare. Il guardiano del pratone era una persona robusta, schiva. Un giorno io e Turner venimmo insultati e presi a calci da lui solo per aver cercato di superare quella soglia oltre la quale la buona creanza si trasforma in eccesso. In fondo era solo schiuma al metanolo quella che lo colpì a seguito di un agguato furbescamente premeditato. Non fu bella la sua reazione. Ridemmo, tra un calcio e l’altro, poiché paure, nervosismo, tristezza e disincanti a volte convogliano tutte nella stessa espressione di apparente e spensierata gioia; da bambini come da adulti.

Il guardiano non venne quel giorno. Il guardiano non sarebbe mai più intervenuto per sedare i nostri propositi illegittimi. Non sapevamo che il comune, costretto al taglio dei costi, decise di includere quell’uomo nella lista delle spese superflue. Ma sono certo che, anche sgravato dal compito di controllare eventuali trasgressori, egli continuava ad osservarci da lontano, e, attraverso le sue lacrime, probabilmente in quel momento gli apparivamo distorti, sfocati, ancora più incomprensibili. Così lontani, così tanto lontani e diversi dalla solitudine e dal silenzio che l’avevano probabilmente avvelenato per anni.

Turner incalzò, pestò un piede per terra e sputò. Lo odiava. L’ipotesi che il lavoro svolto fino a quel momento venisse cancellato da quell’uomo burbero lo innervosiva. Il suo volto rifletteva i lineamenti giovani di un suono spesso inespresso, quello della rabbia, quello di un tuono trattenuto dai cieli coperti della decenza umana. Era un tutt’uno con la bellezza dell’inferno che brulica sotto la terra, con le marginalità irrequiete del tempo che in quel momento minacciava temporali e giudizi più o meno divini. Divino, ieratico, grandioso e all’apice della stessa ira con la quale Zeus ordinò di creare Pandora… Accettare di essere secondi nella vita non è cosa umana. Forse fu proprio per questo motivo che Turner, oltre a sputare e a pestare un piede a terra prese un sasso in mano e lo scagliò inutilmente contro quei palazzi lontani e sbiaditi, come per colpire la casa del guardiano. Un disprezzo disperato, umano, e, come tutte le vanaglorie, inutile.

Johnny andò a sedersi su un masso poco distante, sconfortato e disilluso dalle parole di Turner. Era il più riflessivo tra noi. Dedicava sempre un pensiero ad ogni cosa. A volte lo esprimeva, a volte lo teneva per sé, come convinto che non tutti i pensieri nascano per essere espressi; alcuni, effettivamente, godono di una tale risonanza che possono assicurare l’esistenza dell’espressività sui lineamenti di un viso qualsiasi, senza perdere il senso, la magia, la capacità di rivelare.

Questa volta, però, Johnny decise di parlare: “Non abbiamo fatto nulla. Probabilmente voi siete soddisfatti del lavoro fatto ma non abbiamo fatto nulla.”

Io e Turner ci guardammo. Non avevamo compreso pienamente cosa Johnny volesse dire con quella frase. Spesso ci capitava di non comprendere quei pensieri così criptici. Ci andammo a sedere sullo stesso masso, ognuno dando la schiena all’altro, ognuno a contemplare in silenzio ciò che ancora non avevamo fatto: il calare della sera, il modo in cui ogni foglia o filo d’erba si muoveva in maniera irregolare, ubbidendo alla casualità degli eventi che fanno del vento una cosa invisibile e dell’uomo una cosa imperfetta. Noi, il mondo, non l’avevamo ancora fatto.

Quella piccola casa non la finimmo mai. Ci limitammo a piantare solo quei pali. Eravamo ancora in un’età in cui la libertà consiste nel permettersi di cominciare una cosa senza avere l’obbligo di terminarla. Eravamo in un’età in cui la libertà consiste nel permettersi di non finire mai di cominciare una cosa.

Oggi io, Johnny e Turner non ci vediamo più. Troppo distanti. Johnny abita a Los Angeles, io a Chicago; Turner è morto, un infarto. So poco di Johnny. Le loro storie non sono andate oltre le storie di tutti. Figli, matrimoni, divorzi. Storie comuni. Quello che so con certezza è che io Johnny e Turner, come tutti coloro che nacquero in quegli anni di rivoluzione e cambiamenti, rimanemmo a contemplare una casetta mai terminata. Noi anche in età adulta facemmo ciò che, a partire dall’età adulta in poi, non è più permesso di fare: contro tutto e contro tutti continuammo a permetterci di non smettere mai di cominciare.

Tutti pagammo le conseguenze, tutti finimmo con il comprendere troppo tardi che i sogni sono cose incompiute e che le cose incompiute sprofondano troppo presto nell’oscurità dell’umana imperfezione.

***

Mi chiamo Leroy, Leroy Wood. Cammino lentamente in fondo al tempo. Giunto all’età di sessantasette anni constato che il rumore della ghiaia sotto ai miei piedi ha lo stesso rumore di tanti anni fa, forse rivela, rispetto ad allora, la mia maggiore fragilità. Le nuvole sono giunte ai pensieri, come allora. Come allora attendo che invadano anche le viscere. Un vento fresco si fa strada tra lo spazio stretto e rivelatore che divide l’estate dall’autunno. Il mondo gira sempre nello stesso verso. Delle nostre assi di legno non v’è più traccia. Ritrovo però, presente da secoli, lo stesso masso sul quale ci sedemmo. Io, Johnny e Turner.

Vi poggio il mio bastone logoro e lentamente tento di sedermi cercando di ignorare il dolore alla schiena.

C’è silenzio, c’è tanto silenzio qui, come allora. C’è un silenzio che divora le cose. Come allora.

Penso.

Penso che la vita, che questa vita apparentemente inutile, conti le opere; non le ore.

Penso che questa vita, apparentemente inutile, conti le ore, a volte erroneamente, e non le opere.

Luciano Michilin - via | Letteratu

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