La Scrittura delle Pietre

Venne la vita: un’umidità sofisticata, promessa di un destino inestricabile; e ricca di segrete virtù, capace di sfide, di fecondità. Un misterioso vischio precario, una misteriosa muffa di superficie, dove già si agita un fermento. Turbolenta, spasmodica, una linfa, presagio e attesa di un nuovo modo di essere, che segna la rottura con la perpetuità minerale, che osa scambiarla con l’ambiguo privilegio di fremere, di imputridire, di pullulare.

Oscure distillazioni preparano i succhi, le salive, i lieviti. Come vapori o rugiade, brevi e pazienti brinate scaturiscono a gran pena e per un istante da una sostanza poc’anzi imperturbabile, farmacie di un’ora, vittime designate dall’intemperie, pronte a sciogliersi o a seccare, lasciando solo un sapore o una lordura.

Nascita di ogni carne irrorata da un liquido, come la crema bianca che gonfia la bacca del vischio; come, nella crisalide, l’amalgama intermediario tra la larva e l’insetto, la gelatina indistinta e che sa solo tremolare, prima che vi si ridesti il gusto di una precisa forma, di una funzione individuale. Ben presto si aggiunge il primo addomesticamento del minerale, alcune once di calcare o di silice occorrenti a una materia fluttuante e minacciata per costruirsi una protezione o un sostegno: all’esterno, conchiglie e carapaci, vertebre all’interno, subito articolate, adattate, elaborate nei minimi dettagli. Minerali transfughi, estratti dal loro torpore, addomesticati alla vita e da lei secreti, così colpiti dalla maledizione di crescere – solo il tempo, è vero, di un rinvio subito scaduto. L’instabile dono di trasalire emigra senza sosta. Un’alchimia caparbia, usando immutabili modelli, prepara instancabilmente a una carne sempre nuova un altro asilo o un altro sostegno. Tutti i rifugi abbandonati, tutte le porose armature cadono nel corso dei secoli e dei secoli dei secoli in una pioggia interminabile di sterili semi. Cadono in un fango quasi totalmente formato da loro stessi, che indurisce e ridiviene pietra. Eccoli resi alla fissità un tempo ripudiata. Persino quando la loro forma è ancora riconoscibile, tratto dopo tratto, in quel cemento, essa è solo cifra, segno che denuncia l’effimero passaggio di una specie.

Le rose microscopiche delle diatomee, le sezioni minuscole delle radiolariti, i tagli inanellati dei coralli – come altrettanti minuti dischi ossei, dai raggi innumerevoli e sottili, cerchi di lame convergenti -, i canali paralleli delle palme, le stelle dei ricci di mare incessantemente seppelliscono nello spessore della roccia seminagioni di simboli per un’araldica senza blasoni.

L’albero della vita non smette comunque di ramificarsi. Una scrittura infinita si aggiunge a quella delle pietre. Immagini di pesci che compiono evoluzioni come tra ciuffi di muschi nel cuore di dendriti di manganese. Un giglio di mare nel seno dell’ardesia oscilla sul suo stelo. Un gamberetto fantasma non può più scandagliare lo spazio con le sue lunghe antenne spezzate. Felci imprimono nel carbon fossile le loro volute e le loro trine. L’ammonite di ogni dimensione, dalla lenticchia alla ruota di mulino, impone ovunque il marchio della sua spirale cosmica. Il tronco fossile, divenuto opale e diaspro, come per un incendio immobile, si veste di scarlatto, di porpora e di violetto. L’osso dei dinosauri metamorfosa in avorio la sua tappezzeria a piccolo punto, ove a tratti luccica un tocco rosa o azzurro, color confetto.

Ogni vuoto è colmato, ogni interstizio invaso. Persino il metallo si è insinuato nelle cellule e nei canali da cui la vita è da gran tempo scomparsa. La materia insensibile e compatta ha sostituito l’altra nei suoi ultimi rifugi. Ne ha invaso le figure precise, i solchi più fini, così perfettamente da consegnare l’impronta anteriore al grande libro delle età. Il firmatario è scomparso, ogni profilo, pegno d’un miracolo diverso, rimane come un autografo immortale.

Roger Caillois

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