L’ultimo giorno di un condannato a morte

Mi son detto: dal momento che ho la possibilità di scrivere, perché non farlo? Già! ma che scrivere, poi? Chiuso tra quattro mura di pietra nude e fredde, senza libertà di movimento, senza orizzonte per i miei occhi, tutto il giorno occupato, per unica distrazione, a seguire macchinalmente il lentissimo corso del riquadro biancastro che lo spioncino della porta disegna sul viscido muro di fronte, potrei forse avere qualcosa da dire, io, che non ho più niente da fare in questo mondo?
E che troverei in questo cervello inaridito e vuoto che valga la pena di essere scritto? E perché no, poi? Se tutto, intorno a me, è monotono e senza colore, non ho forse, dentro, una tempesta, una lotta, una tragedia?
Questa idea fissa che mi possiede non mi si presenta forse ad ogni ora, in ogni istante, sotto un nuovo aspetto, sempre più odiosa e spietata a mano a mano che si avvicina il mio ultimo istante?
Perché mai tenterò di dire a me stesso tutto ciò che io provo di violento e di strano nella disperata situazione in cui sono?
Certo la materia è abbondante e, per breve che sia ormai la mia vita, ci sarà bene con le angosce, i terrori e le torture che ancora la devono certo riempire, di che usare questa penna e svuotare questo calamaio! Del resto il solo mezzo per soffrire meno è proprio osservare le proprie angosce; e il dipingerle, dunque, in qualche modo mi distrarrà.
E poi, quello che scriverò potrebbe anche non essere inutile, forse. Questo diario delle mie sofferenze, redatto ora per ora, minuto per minuto, supplizio per supplizio, se avrò la forza di condurlo fino al momento in cui mi sarà «fisicamente» impossibile continuare, questa storia, necessariamente interrotta ma il più possibilmente completa delle mie sensazioni, non potrà forse contenere un grande e profondo insegnamento?

— Victor Hugo

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