Energia a impatto zero

A volte penso all'assurdo spreco di una parte del mio tempo, al non tenerne in massimo conto l'assoluta preziosità. Eppure non mi è dato avere né una minima indicazione della reale durata della mia vita, né un'indubitabile premonizione dell'avvento di quel pericolo che mi sarà mortale, nel prossimo o in un più remoto futuro. Paradossalmente, ciò che invece mi è dato avere è la capacità di mascherare alla mia coscienza l'ineluttabilità della mia morte, e del suo ignoto momento. Il non pensare alla propria morte è, in realtà, il modo migliore per illudersi di averla allontanata da sé, come fosse un'entità oscura e lontana, quanto una diaccia nebulosa. Quando infatti mi arriva un input come questo, un favoloso istante in cui potrei rifletterci su, seriamente, serenamente, ecco che, anziché impegnarmi in una lucida e profonda presa di coscienza, io mi imbosco in un'analisi superficiale, mi defilo in un pensiero di basso profilo, mi arrocco nel crearmi un alibi con una sgusciante retorica domanda: perché è così spontaneo, così naturale, quest'umano reiterato barare con l'indiscutibile realtà della propria morte? Quest'umano barare è, forse, soltanto una sorta d'inconsapevole fuga da un ignoto che atterrisce, è, forse, soltanto una sorta d'inconsapevole legittima difesa della propria sanità mentale? Ebbene, mi è chiara più che mai, anche questa volta, la ragione per cui da questi pensieri voglio ora scappare. Ma poi un brivido m'assale. Il tardivo scuotimento della sopita coscienza mi fa immaginare la morte: silenziosamente, lentamente, quella mi sta girando attorno. La sua bocca è spalancata in una torrentizia risata, una risata muta, sorniona, folgorante. Lei se la ride di me, lei non smette di ridersela di me, mentre io, febbrilmente, provo ad aggiungere altri nuovi mattoncini a sostegno di quel mio alibi del cazzo.

Giulia Cingerte

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