Il giardino dei Finzi-Contini

Quando Micòl ebbe deposto il ricevitore sollevai il capo.
«Hai detto che noi due siamo uguali» dissi. «In che senso?»
Ma sì, ma sì – esclamò – e nel senso che anch'io, come lei, non disponevo di quel gusto istintivo delle cose che caratterizza la gente normale. Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può apparire che delusivo, banale, insufficiente… Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse «subito» passato perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio era anche sua, tale e quale. Era il «nostro» vizio, questo: d'andare avanti con le teste sempre voltate all'indietro. Non era così?
Era così – non potei fare a meno di riconoscere dentro me stesso – era proprio così. Quand'è che l'avevo abbracciata? Al massimo un'ora prima. E tutto era già tornato irreale e favoloso come sempre: un evento da non crederci, o da averne paura.

— Giorgio Bassani

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