Vite intrecciate

di Lucia Manolescu

Sono Ada Stani, una donna come tante altre, e in questo momento vivo a Roma, in Italia. Non sono sempre vissuta qui. Sono nata in Romania, a Bucarest, nel lontano 1963, ed ero la figlia di Carol e Lidia Stani. Lei, una giornalista, lui, un avvocato. Le possibilità finanziarie dei miei genitori ci davano l'opportunità di possedere una splendida villa nel quartiere più esclusivo di Bucarest: piazza dell'Università.
Il nostro giardino, grande circa mille metri quadri, era pieno di bellissimi fiori e di alberi da frutto; ogni anno mio padre raccoglieva la frutta e ne regalava tanta anche ai nostri vicini. Da noi con la frutta si faceva il vino, e siccome ce n'era in abbondanza ed era un peccato buttarla via, quando cominciava a cadere a terra mio padre la regalava, contento di ricevere come ringraziamento qualche bottiglia di vino.
Era considerato uno scambio di gentilezze e di amicizia, e a lui faceva piacere. Noi, i ragazzi del quartiere, ci conoscevamo da sempre e frequentavamo la stessa scuola. Eravamo cresciuti insieme. Vederci tutti i giorni era un'abitudine, e i nostri genitori non trovavano niente di strano se qualcuno del nostro gruppo dormiva a casa di qualcun altro, quando facevamo tardi. Io ero legata in modo quasi fraterno a tre di loro, che abitavano molto vicino: Dan, che più tardi sarebbe diventato l'amore della mia vita, Fani, una ragazza impicciona ma sempre allegra e pronta fare scherzi a ognuno di noi, e lui, Sergiu, il mio migliore amico.
Con Sergiu ero cresciuta fin da piccolissima. Aveva tre anni più di me. Le nostre case erano quasi attaccate, una dietro l'altra, e si assomigliavano perfino. Il suo giardino, bellissimo, era più piccolo del nostro, in compenso la casa aveva un terrazzo meraviglioso.
Lui era bello come un dio greco e veniva corteggiato da tutte le ragazze, esclusa me; lo consideravo infatti come un fratello più grande, e lui mi trattava come la sorellina da proteggere.
Dan e Fani avevano la mia età. Tutti e quattro eravamo così uniti che non facevamo nulla l'uno senza l'altro.
Ricordo l'esame di maturità che cambiò le nostre strade e, a qualcuno di noi, tutta la vita. Il fermento di quei giorni rimarrà impresso per sempre nella mia memoria.
Sergiu frequentava il quarto e ultimo anno di università, ingegneria meccanica, tuttavia in quella circostanza fu sempre vicino a noi.
Avrete capito, ormai, che vorrei raccontare una storia.
La storia di colei che in poco tempo diventò un punto di riferimento nella mia vita e in quelle dei miei più cari amici, riuscendo a cambiare in un modo o nell'altro anche le nostre coscienze e il nostro futuro, che tutti noi immaginavamo diverso.
Non è affatto una storia allegra, è molto triste; però ho bisogno di raccontarla per lei, perché solo oggi capisco quanto abbia sofferto senza gridare aiuto, rinchiusa nel suo strano e innocente silenzio. Avrei dovuto intuire il suo dolore e aiutarla, perché lei avrebbe potuto riempire d'amore il mondo intero, senza fare crollare il suo.
Oggi non sono più come allora, sono cambiata. Comprendo le cose in modo diverso, eppure, la domanda che mi tormenta da anni è ancora lì, anche adesso senza risposta: Dio, perché non aiuti l'innocenza a trovare il sentiero della verità?
Forse voi avete la risposta? Mi piacerebbe conoscerla.
Intanto, per iniziare il mio racconto, tornerò indietro nel tempo, nella calda estate del 1981.
Ada conobbe Gena, che era nata a Braila e per vari motivi si era poi trasferita a Bucarest con la sua famiglia. Per un gioco del destino si era iscritta alla sua stessa scuola per l'esame di maturità.
Gena era timida e bella, e Ada non l'aveva mai vista ridere forte, piuttosto a fior di labbra, con un suono gentile che quasi non si sentiva. Aveva il viso delicato, i lineamenti regolari, perfetti, gli occhi castani e profondi (ci si poteva perdere nella loro bellezza), e lunghi capelli bruni. La pelle bianchissima e la corporatura esile contribuivano molto a donarle quell'aura di mistero che la ricopriva in quei giorni.
Ada chiude gli occhi... e cerca di rivedersi allora, spensierata, quando aveva diciotto anni e, aprendo la porta della sua classe, aveva visto Gena:
“Ciao, sono Ada. Che cosa ci fai al mio banco?”
“Ciao, sono Gena. Era libero.”
“No, no, puoi restare, il mio compagno adesso non c'è.”
“Grazie...”
E arrossì per l'imbarazzo.
“Sei nuova di queste parti?” continuò Ada.
“Sono di Braila. I miei genitori si sono trasferiti qui da poco. Mi sono iscritta in questa scuola per la maturità.”
“Rimani a Bucarest?”
“Non lo so ancora.”
La porta si aprì, e l'insegnante, con l'aria severa di sempre, invece che buongiorno, disse: “Silenzio!”.
Mancavano tre giorni all'esame, le ripetizioni, pertanto, non erano obbligatorie; la maggior parte degli studenti, tuttavia, ne approfittava per rinfrescare la memoria in attesa dell'esame.
Dopo due ore, finalmente, il campanello squillò, l'insegnante salutò e uscì.
“Gena, vieni al bar? Noi ci incontriamo tutte le sere dopo le lezioni” propose Ada.
“Mia madre si preoccuperebbe, non posso.”
“Staremo un'oretta, non di più. Qui al Budapesta.”
“Grazie... forse un'altra volta.”
“Come vuoi.”
Ada, un po' seccata, cominciò a mettere nello zainetto le matite che aveva sparpagliato sul banco e, guardando Gena in modo scontroso, disse:
“Ciao, allora. Ci vediamo”.
“Ciao. Grazie, comunque.”
Gena sorrise. Tutto sommato trovava buffa quella ragazza, perché quando parlava con qualcuno faceva una mossa, arricciava il naso, come se non le importasse niente della risposta dell'altro. Poi fece caso che un bel ragazzo biondo, che lei non aveva ancora notato, prendeva la mano di Ada trascinandola via.
Mettendo le ultime cose nella borsa, Gena si rese conto che praticamente era rimasta sola in classe.
Una donna minuta, che portava le scope e un carrello, si avvicinò dicendole: “Signorina, ha bisogno di qualcosa?”.
“No... no. Buonasera, e scusi tanto.”
Con un piccolo gesto di saluto, Gena si allontanò correndo verso la fermata del tram che si vedeva arrivare in lontananza.

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