Dalla terra dove i sorrisi non tramontano mai

di Franco Cascianelli

India, ottobre 2004

Ciao cari Amici,
eccomi ritornato in questa terra che tanto spazio ha preso ormai nella mia vita e nel mio cuore.

Sono arrivato all’aeroporto di Delhi alle 4.45 dei mattino, e dopo circa un’ora per le solite formalità doganali mi sono diretto verso l’uscita. Quell’uscita tanto drammatica nel mio viaggio precedente stavolta sono riuscito a viverla con la spontaneità di chi si sente inserito in un ambiente e non lo teme, perché è stato come inoltrarmi in una beatitudine che non provavo più da tempo, lasciandomi alle spalle l’Occidente per essere benedetto dall’odore dell’India. Non è come il viaggio precedente, stavolta l’India mi aspetta.

Il caos è ancora più frenetico di quello che mi ricordavo, ma i miei sensi godono della pace interiore che l’India riesce sempre a donarmi, tanto che mi sento come cullato in una specie di piacevole torpore. A svegliarmi è l’assalto affettuoso dei miei amici tibetani, che nel vedermi già lì sono visibilmente dispiaciuti di non essere arrivati prima di me.

Una scossa mi attraversa il corpo e sento fondersi insieme gioia ed emozione, non so dove guardare né quasi cosa dire, perché come al solito la gola mi si è stretta in un gomitolo che mi fa dire solo poche parole strozzate. Vivo al ritmo del battito del mio cuore!

Le continue strette di mani e i sorrisi che illuminano gli sguardi timidi e vergognosi dei miei amici bastano a dire tutto quello che non riusciamo a comunicare a parole, ed è meraviglioso, perché è come abbracciare dei bambini grandi, o forse solo dei grandi con delle bellissime espressioni da bambini.

Anche la grande Delhi si sta svegliando con il trambusto che non permette di sentire nemmeno quello che ci diciamo nel taxi. Ma i miei occhi sono sui marciapiedi, quei marciapiedi pronti per una nascita e frugali come la morte, dove con assoluta lentezza si ripetono i gesti rituali della pulizia corporea mattutina, che ogni individuo fa con la massima cura, come se si trovasse nell’ intimità di una casa. Ma la strada non è una casa!

All’improvviso una balla di juta si stiracchia, un telo di nylon si muove lentamente, animati dai corpi oramai svegli che ci vivono dentro e che si affacciano al nuovo giorno con un sorriso. Gesti e movimenti che mi sono diventati familiari, come anche i bambini che piangono, le mamme che allattano fra la sporcizia, i vecchi che pregano guardando comunque al nuovo giorno con gratitudine e ringraziando per la vita che gli è stata donata.

Questo è ciò che vedo dal finestrino, ma un giorno scenderò dal taxi e inizierò ad ascoltare le cento e mille storie che si incrociano in questa India poverissima e sorridente. Chissà, magari riuscirò anche a scriverle, queste storie che scorrono sui marciapiedi, qui dove tanta gente nasce, vive e muore senza conoscere altro.

Ecco i soliti occhi profondi che mi guardano dalla strada e il mio cuore si altera con continue fibrillazioni, ma so già che farò presto ad abituarmi.

Mille pensieri mi corrono in testa come missili lanciati nello spazio, ma vengono subito rapiti dalle percezioni visive di questa città così piena di vita, dove l’aria sta già diventando pesante e un velo di nebbia avvolge tutto ciò che mi circonda, rubandomi i colori e soffocando il mio respiro. Lo smog maledetto sta uccidendo questa gente che non può scegliere un mondo migliore e crede che questo sia già tanto.

E questa l’irrefrenabile corsa al benessere?

In questa giornata lunghissima, sistemo tutto nella mia camera d’albergo e mi riposo un po’. Il destino mi ha regalato la stanza dell’altro viaggio, ma stranamente mi sembra meno sporca.

Che sia un caso?!

Tenzin sembra mio figlio, mi sta sempre appiccicato come un koala, aiutandomi in ogni cosa. Talvolta è così premuroso che non lo sopporto. Se fosse per lui non dovrei nemmeno toccare i piedi in terra per non sporcarmi le scarpe!

Non sopporta che taxi e negozi mi applichino dei prezzi gonfiati soltanto perché io sono un turista, così ogni volta che devo comprare una cosa qualsiasi ci metto due ore anche se la spesa è di poche rupie, perché lui sta lì a discutere e contrattare fino allo sfinimento. Che stress!

Allora spesso sfuggo al suo controllo e vado da solo, ma altrettanto spesso mi capita di perdermi e allora sono guai... Un giorno nella vecchia Delhi mi sono perso e ho chiesto la strada a un gruppetto di indiani, col risultato che in contemporanea ognuno mi ha indicato la sua e tutte erano diverse: mi sembrava di stare su Paperissitna.

Durante il mio girovagare tra i vicoli di Majnucatilla (la colonia tibetana di Dehli), scopro che dietro al campo profughi esiste un altro ospedale di Madre Teresa che accoglie disabili con gravi problemi di deambulazione.

Corro subito all’albergo e facendo settantotto scale per volta raggiungo la mia camera, prendo una busta e ci metto dentro medicinali vari. Poi tiro fuori un’altra bustina per metterci un po’ di soldi. Avendoli contrassegnati con i nomi di chi me li ha donati, mentre li tiro fuori dalla borsa vedo che sono da parte della mie amiche Violetta, Lina, Nicoletta, Paola, Francesca e Lorena. Quanti cuori gentili sono contenuti in questi 300 euro!

Chiudo bene la busta e via, di nuovo al centro di Madre Teresa.

Prima però mi fermo in banca e faccio il cambio: 14.800 rupie!

Non mi entrano più nella bustina, così le devo infilare nelle tasche dei pantaloni facendo attenzione che non sporga nulla.

Appena arrivato al cancello mi si stringe il cuore e mi si gonfia la gola alla vista di un disabile con gravissime deformazioni alle gambe con le mani piegate in avanti e infilate in un paio di infradito, cammina alzando in equilibrio il busto e i glutei, con le gambe che dondolano verso l’alto. Praticamente le mani gli fanno da piedi e le braccia da gambe. Lo fisso ancora come un imbecille, quando ecco che lui mi fa un sorriso talmente vero e pieno di gioia, proprio come se mi conoscesse bene e fosse felice di rivedermi, che dall’emozione non sono nemmeno capace di salutarlo, e per un attimo rimango lì a guardarlo, imbarazzato e con l’emozione che si strozza in gola, la peggiore che si possa provare, perché toglie il respiro e fa fibrillare il cuore. Ma per fortuna una suorina piccola piccola arriva a togliermi da quello stato di “pietra con la faccia da tonto” e mi conduce all’interno dell’ospedale.

“Di dove sei?” mi chiede.

“Italiano” le rispondo. “E lei?” le faccio a mia volta, pregandola anche di parlare lentamente perché io possa capire un po’ meglio quello che mi dice in inglese.

“Indi” e con un gran sorriso aggiunge: “Amo il Papa, amo gli italiani per il loro grande cuore e amo Sonia Ghandi perché è una donna speciale: per amore dell’uomo che sposò si convertì alla religione. Anche se oggi è vedova, quell’amore è rimasto in lei e lo trasmette ancora al popolo indiano guidando politicamente un partito del nostro governo, perché il suo è puro amore del cuore. Al di là della religione cristiana che lei abbandonò e che io abbracciai”.

Mi ringrazia poi per i soldi e per i medicinali, e abbassando gli occhi mi tocca la fronte e mi benedice in italiano: “Grazie e che Dio benedica te e tutti coloro che ti vogliono bene”.

“Namasté” la saluto io in hindi. E con un sorriso la suorina si allontana come una farfalla, con una grazia così felpata da sembrare un angelo.

Mentre esco, eccomi chiamato dal disabile che vuole salutarmi ma non può rincorrermi; allora torno indietro, lui si mette seduto, toglie la mano dalla scarpa e me la porge. Io gli offro la mia e mi sento all’improvviso così felice e fortunato che mi chino a terra e lo abbraccio con forza per ringraziarlo dell’incontro e dell’ amore che mi ha trasmesso con la sua semplicità.

“Torna, io sono sempre qui” mi dice.

Mi alzo con una gioia incredibile dentro per la fortuna che ho avuto nel ricevere quell’abbraccio. Penso che ritornerò molto presto qui all’ospedale, anche perché molti dei miei panni posso lasciarli qui, invece di portarli in giro per l’India. Non importa dove donarli, l’importante è averli donati. E come quando uno fa l’elemosina: non si fa mai alla persona che la riceve, ma la si fa sempre a Dio.

Quest’anno ho portato con me la telecamera per riprendere un po’ di viaggio, anche perché fare sempre le solite foto lo trovo noioso, non si vede il movimento e non si sentono i suoni.

Non capisco perché qui in India non sento il desiderio di fumare, non sento mai un dolore, non provo mai la sensazione di fame trovo una grande forza nella concentrazione e il mio corpo diventa fonte di energia. E come se il grasso accumulato in Italia si trasformasse in una rigenerazione cellulare e vitale, come se fossi un cammello alle prese col deserto: sento che sto bene e tutto quello che in Italia è primario qui diventa relativo.

Girando ancora in questo campo profughi di Majnucatilla scopro che c’è una parte che non ho ancora esplorato.

Appena entrato mi rendo conto che qui la povertà è anche peggio, e persino i palloncini colorati sono sgonfi. La cosa strana è che tutti li comprano ai loro bambini e glieli legano al polso, ma dopo due-tre minuti inevitabilmente scoppiano, perché sono sgonfi e invece di volare verso l’alto toccano per terra dove c’è una montagna di immondizia in cui si incastrano. E così anche il desiderio di un semplice palloncino nato per volare viene infranto.

I miei occhi qui vedono troppa povertà, e ogni volta che guardo un bambino non riesco a non pensare che sarà povero per tutta la vita, che non studierà, che sarà sfruttato al massimo per la sua ignoranza e non saprà mai cos’è un gioco, che sarà privato di ogni felicità e anche della bellezza, perché invecchierà prestissimo.

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