Jacek Kurdula

In effetti fu questo per te l’Italia: sette in un capanno sperduto tra i terreni di Cerignola, tu e altri sei tunisini, o chissà da dove cazzo venivano.

Alle cinque passava il capo col camion, vi scaricava in campagna a tirare pomodori in un cassone, fino alle nove di sera, fino a quando il maledetto sole la smetteva di frustarti la schiena. Le ossa, quel che ne restava a tenerti ancora in piedi, te le raddrizzavi su un materasso lercio buttato per terra tra i piedi di Habib, la testa di Mohammed e chissà cosa di Mircea. E poi di nuovo, le cinque di mattina, buio, il capo a caricarvi sul camion, tra donne che tornavano dalla strada e altre che prendevano il loro posto. Voi, tu, tutti insieme, come quarti di bue.

Il motore dell’economia, la massa da spremere, il carburante del made in Italy.

Era passata anche quell’estate, e avevi deciso di ritornare in Polonia dalla tua famiglia. Erano lì ad aspettarti: quando torni Jacek?

Una volta a casa, ti guardasti intorno. Quel posto non era più tuo, non riconoscevi più nessuno, tu non eri più tu. Non la tua famiglia, non i tuoi amici. Non più ordine nelle cose, nelle tue priorità. Era troppo difficile spiegare tutti i pugni che avevi preso per comprare quel televisore nuovo a tua madre, il sangue buttato per le rate del gas. Non l’avrebbero mai capito.

Il tuo sudore è olio che ingrassa la macchina del consumo. E nessuno ha voglia di ascoltarti. Quando lo capisti guardasti il cielo. L’estate era lontana, e quel pallido cielo polacco ti opprimeva il petto come un rimorso. Soffocare. Partire, ora, per provarci. Di nuovo.

Il tuo vecchio amico Geniek se la spassava a Bruxelles da qualche mese. Una foto con tre fighe attaccate al collo e una prateria di bicchieri sul tavolo. Dietro, la dedica: quando vieni cazzone? La tentazione vinse anche stavolta ed eccoti a Bruxelles.

Magma vischioso di popoli che inonda la città, sei uno tra tanti, avevi trovato una tua dimensione. O piuttosto te l’aveva trovata Geniek. Di giorno muratore con lui, cinque euro all’ora, la sera su una panchina con i polacchi del cantiere. Vodka fino a colazione a sognare un lavoro migliore, nell’Europa che conta.

Mattino, di nuovo al cantiere. Di nuovo la panchina, di nuovo il cantiere. Il succedersi ciclico delle giornate, lavoro-alcol-panchina, la mente offuscata. Una nube ti passa sul viso. I tuoi sogni davanti agli occhi. Trentun’anni, tutta la vita davanti.

L’Europa che conta, e tu su una panchina.

E poi d’improvviso, Jacek, cade la pioggia. Su quel lungo viale, Boulevard du Régent, due corsie, una verso il centro, l’altra porta fuori città. Attento Jacek, attento. Squilla il telefono, sono le cinque, chi può essere, pronto, mamma sei tu, io sento solo un gran casino, ma cos’è questo rumore, aspetta che passo, aspetta. E il botto lo fai sul serio Jacek, per terra, sangue ovunque, una donna si sbraccia disperata.

Jacek a terra, la testa aperta, i sogni che gorgogliano giù in un tombino, insieme alla pioggia.

Francesco Annicchiarico

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