La grande fuga

L'Italia mi mancava. Nonostante le mie chiare origini asiatiche. La verità è che ero nata nel Belpaese, e avevo vissuto a un passo dal mare per tutta la vita. Fino a quando non era successo ciò che era successo. L'impossibile che diventa realtà, l'ombra di una condanna annunciata da tempo che si abbatte sulla presunzione del genere umano. E così, in quattro e quattr'otto, l'intero pianeta si era ritrovato a dover fare le valigie, pronto a traslocare verso lidi più tranquilli. Anzi, per nulla pronto a traslocare. Il piano di evacuazione era stato concepito decenni prima. Da menti visionarie e pazze allo stesso tempo. Gente che era stata sbattuta all'interno di una stanzetta senza finestre, a vita, con una bella etichetta appiccicata sulla fronte con su scritto "Attenzione: scienziato pazzo in regime di detenzione forzata, si prega di non rivolgere la parola. Grazie". Già, perché la storia è sempre la stessa. Profetizzare la fine di qualcosa - bella o brutta non fa alcuna differenza -, finiva immancabilmente per restringere lo spazio vitale del rivoluzionario di turno a una sottile linea rossa sulla quale tentare di camminare senza perdere l'equilibrio. Una caduta che, il più delle volte, avveniva poco dopo, spesso a causa di uno spintone del tutto anonimo e altrettanto impossibile da dimostrare. Papà era un musicista, una specie di rockstar idolatrata da milioni di fan. Grazie alla sua popolarità e ai suoi soldi, e grazie anche a quel pizzico di pazzia che continuava ad ardere in lui nonostante non fosse più un ragazzo, si era assicurato un pass per quella che sarebbe stata ricordata come la più grande fuga di sempre. La Grande Fuga, insomma, quella vera. Cinquecento milioni di persone - uomini donne e bambini -, a cui era stato permesso di lasciare il pianeta, prima che della Terra non rimanesse altro che magma incandescente. Ogni giorno pensavo alla morte atroce toccata a tutti gli altri, la maggioranza della popolazione. Gli stessi uomini donne e bambini a cui non era stato concesso un passaggio per il Paradiso, e che non avevano potuto fare altro che attendere le fiamme dell'Inferno. Continuavamo a orbitare intorno al nostro amato pianeta. Giorno dopo giorno. Di tanto in tanto mi passava davanti agli occhi l'Italia, un rogo a forma di stivale. Allora piangevo e ripensavo alle sue bellezze. Il mare, la montagna, e le nostre belle città, uniche al mondo e ora ridotte in cenere. Avremmo vissuto su quella specie di nave da crociera spaziale per non so quanto tempo. Molto probabilmente avrei visto morire mio padre e mia madre, avrei messo al mondo figli, sarei invecchiata e poi morta. Avrei vissuto quella specie di vita continuando a fluttuare nello spazio, sperando ogni giorno di vedere la Terra spegnersi a fuoco lento. Sarei stata la prima ad alzare la mano se avessero chiesto a qualcuno di tornare laggiù, anche solo per dare un'occhiata. Mi mancava già, la Terra, nonostante fossero trascorse solo quattro settimane dalla Grande Fuga. Ero certa che esistesse persino un film con quel titolo, uno di quelli vecchi e in bianco e nero. I preferiti di papà. La verità è che ce lo dovevamo aspettare. Lo avevamo condannato a morte noi, il nostro pianeta. Nessuna era glaciale, nessuna pioggia di meteoriti, nessun maremoto. Solo il progresso. La Terra era stata condannata a morte in nome dell'innovazione, della miniaturizzazione, della ipervelocità. Tutti quanti a correre come formiche alla ricerca del benessere, ignari del nostro produrre nient'altro che malessere. Fino al punto di rottura. Quello in trepidante attesa a un palmo dal nostro naso. Invisibile. Soprattutto agli occhi di non era stato capace di vedere oltre. Per l'ennesima volta scesi la scalinata che dava accesso all'enorme sala panoramica. L'ora era quella giusta. Lo stivale non si fece attendere, mi si presentò davanti agli occhi un attimo più tardi. Luminoso al punto tale da risultare vivo. Nonostante fosse morto. Lo fissai fino quando non mi ritrovai di nuovo con gli occhi pieni di lacrime. Allora piansi, in silenzio, senza alcuna vergogna. Come un orfano condannato a poter amare i propri cari solo in fotografia. Piansi e continuai a farlo fino a quando l'Italia non scivolò via di nuovo, come un'anguilla pronta a riguadagnare il mare aperto. Mi girai di spalle e risalii le scale un gradino alla volta, a testa bassa. L'astronave continuò a seguire la sua orbita, ligia al dovere. Come se non avesse fatto altro sin dall'inizio dei tempi. Come se il tempo, il nostro tempo, avesse ancora un valore.

Alessandro Casalini Scrittore

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