Asiatica

Mia cara, avrei voluto scriverle, anzi credo di avere cominciato, una volta. Ma non era il caso di farlo, in questi giorni di smania, in cui non so chi sono, di dove vengo, dove vado e che cosa si aspetta (o non si aspetta) da me. E poiché devo guadagnare denaro sono come una belva in gabbia –, ma non concludo niente – i libri volano contro la parete, le carte si trascinano per terra, ci faccio giocare il gatto. Solo la sera esco sola e percorro la città fino a tardi; ma poiché ho promesso ai miei di non mescolarmi al mio prossimo finché dura l’epidemia, non posso più chiedere alla folla il grande aiuto che mi dava nei giorni neri. Non esco mai dall'auto (solo iersera, verso le 12, sedetti sotto la statua di Marco Aurelio – c’erano due inglesi della mia età, uomo e donna, che avrebbero voluto parlare, si vedeva – e l’orologio che batteva limpido, nella grande conchiglia rosa. E ogni tanto una grande macchina che strisciava tutto intorno, come in una sala da ballo, e scompariva). Ho visto tante strade, verso il Testaccio, tra Porta San Paolo e il Ponte Palatino – ho assistito dall’auto a tante strane scene – dovevo avere anche la febbre – e ho meditato sul destino dei solitari, dei vagabondi quali io sono (e gli altri che erano là, senza dubbio).

Cristina Campo nel 1957 a Roma durante epidemia "asiatica" (da lettere a Mita)

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