Ciudad Juarez

I messicani la chiamano la “città che uccide le donne”. È una cittadina industriale, la frontiera tra Messico e Stati Uniti, costretta alle sevizie dietro un muro di contenimento che blocca il passaggio da uno Stato all’altro. La storia delle donne uccise in questa città inizia negli anni ’90, quando vengono ritrovati i primi corpi senza vita di giovani donne sotterrate nel deserto di Juarez. Nel corso di questi 30 anni attiviste e studiose si sono mobilitate per fare ricerche e proporre allo Stato ipotesi e soluzioni concrete per far fronte al problema, ma finora l’unica reazione ottenuta è stata la militarizzazione coatta del territorio che, a sua volta, ha ulteriormente aggravato la situazione di precarietà e insicurezza. Lo scopo della militarizzazione è principalmente la lotta ai cartelli della droga, ma la guerra al narcotraffico ha aumentato esponenzialmente il grado di violenza nei confronti dei civili: negli ultimi nove anni sono morte 1.200 donne. Insieme alla militarizzazione, anche la crisi economica e il degrado che ne consegue hanno contribuito ad instaurare un legame pericoloso tra forze dell’ordine e criminalità. I movimenti femministi denunciano da anni il coinvolgimento diretto dei corpi di polizia nei reati contro le donne, non solo dunque noncuranza e negligenza rispetto al fenomeno. Nel conflitto tra cartelli e esercito si confondono ormai le rispettive responsabilità. Come spiega Amnesty International, lo scorso anno ha registrato «uno spiccato aumento del numero di omicidi, con 42.583 casi documentati in tutto il paese», aggiungendo inoltre che la presenza stabile delle forze armate sul territorio non gode di alcuna «disposizione efficace che garantisca trasparenza, accertamento delle responsabilità e controllo civile».

Non donne, ma corpi da spezzare

Le donne messicane sono donne senza umanità. Non sono considerate persone. Ad aumentare non è solo il numero di omicidi, ma anche la ferocia con cui vengono eseguiti: sempre più frequentemente ad essere rinvenuti sono soltanto i frammenti dei corpi delle vittime. Chi sono queste donne? La maggior parte ha un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. Sono per lo più donne emigrate a Ciudad Juárez per lavorare nelle maquilladoras, le industrie tessiti e di montaggio delle imprese americane situate lungo la frontiera, in cui vengono assunte soprattutto minorenni, più facili da addomesticare e gestire. È nei viaggi di ritorno dalle fabbriche che molte di queste ragazze spariscono, per poi essere ritrovate – quando possibile – violentate e senza vita. A morire, troppo spesso, non sono soltanto giovani donne ma bambine. Tra queste, Valeria (11 anni) tornava da scuola in autobus, ma suo padre che la stava aspettando non l’ha mai vista scendere. Il corpo della bambina è stato trovato il giorno successivo su uno dei sedili dell’autobus. È stata uccisa, dopo essere stata abusata sessualmente. Ed era una bambina, vittima di violenza domestica, anche quella ritrovata morta dentro una valigia abbandonata in un posto pubblico. È stata trovata perché dalla valigia usciva del sangue.

"Murales con i volti delle ragazze scomparse a Ciudad Juárez"

«Non sono morte di vecchiaia – dicono – sono state uccise». E nella maggior parte dei casi non esiste un viso colpevole da poter guardare e dunque non esiste pace né rassegnazione.

Chiara Formica

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