Storia di cacca (e bestemmie)

A Firenze nel 1501 si erano raffreddate da poco le ceneri del rogo che aveva consumato i cadaveri di Girolamo Savonarola e di due frati suoi seguaci, impiccati il 23 maggio 1498, e in città si sentivano ancora gli echi degli accalorati sermoni del predicatore ferrarese. La vicenda che vi racconto è riportata su una serie di nove quadretti, ognuno con la propria didascalia, disposti in tre righe da tre, come una tavola di fumetto ante litteram. (...) Siamo d’estate – per la cronaca è il 21 luglio – e Antonio Rinaldeschi, giovanotto di nobile famiglia, poco prima di sera se ne va all’Osteria del Fico per passare un po’ di tempo tra vino, donne e gioco. Però gli dice veramente male: al tavolo dei dadi perde tutto quello che ha in tasca, magari anche la bella camicia che aveva pagato un occhio della testa. Mezzo sbronzo, e “accecato dall’ira”, torna verso casa passando vicino a piazza degli Alberighi, per quella strada che oggi si chiama Via dello Studio. Lì, sulla parete di un edificio, vi è un Tabernacolo a far da cornice a una pittura muraria della scuola del Botticelli: vi sono raffigurati l’Arcangelo Gabriele e Maria nel momento dell’annuncio della prossima divina maternità. In mezzo alla strada invece c’è l’abbondante e maleodorante ricordo del passaggio di un cavallo che si era scaricato l’intestino poco prima. Antonio, che procedeva barcollando in quella strada semioscura, forse ci mette un piede dentro e – magari su istigazione del demonio, come suggerisce il diavoletto che è dipinto sopra la sua testa – gli parte l’embolo: bestemmiando a gran voce contro la Madonna raccoglie un paio di quelle palle escrementizie e fa il tiro a segno verso il Tabernacolo. Nonostante la sbornia non sbaglia il colpo e fa centro, dritto sulla faccia di Maria. Lui se ne va, ma qualcuno, che l’ha visto e che forse gli ha gridato contro, corre a denunciarlo. Antonio a questo punto ha paura di averla fatta grossa e se la svigna verso i campi. Le guardie, mandate al suo inseguimento, lo rintracciano nel giardino di San Miniato al Monte, lo incatenano e lo incarcerano immediatamente nel Bargello, la prigione cittadina. Quasi subito è tirato fuori dalla sua cella e condotto davanti ai giudici. L’offesa viene giudicata di enorme gravità, non tanto per il fatto di aver sporcato un pur pregevole dipinto, ma per aver avuto l’intenzione deliberata di offendere col suo gesto un simbolo sacro, cioè la Madre di Gesù, testimoniata dall’aver accompagnato il lancio con una serie di bestemmie contro di lei e la sua proclamata purezza. Non serve a nulla che Antonio Rinaldeschi si giustifichi con il fatto di aver bevuto troppo, di non aver mai fatto nulla di male nella vita e che si dichiari profondamente pentito del suo tiro a segno. I giudici in pochi minuti emettono la loro sentenza e, dopo aver chiamato un sacerdote affinché Antonio possa confessarsi e ricevere l’assoluzione, lo passano nella mani del boia. All’una di notte attorno al collo del povero Antonio viene messo un cappio e l’altra estremità della corda è legata al colonnino, quindi il carnefice lo getta giù da una finestra della Torre del Bargello, dalla parte che dà sulla piazza. Il cadavere di Antonio Rinaldeschi rimane lì per tutto il giorno seguente, impiccato per ammonire la città intera, mentre angeli e demoni si contendono la sua anima che verrà portata – secondo la pietà popolare – verso il cielo. In Italia il suo reato è perseguibile penalmente ancora oggi ex comma secondo art. 404 Codice Penale. Se l’avesse fatto nel 2020, nell’Italia moderna e soprattutto laica, nello stesso posto e con le stesse modalità, sarebbe stato sottoposto a processo per lo stesso capo di imputazione, e avrebbe rischiato fino a due anni di carcere. Ma gli è andata peggio.

(Maurizio Pinna)

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