Faber Nostrum

Era il 1992 e in quel carcere c’erano più di duecento detenuti che, per la maggior parte, avrebbero riconquistato la libertà entro cinque anni. Nessuno, nemmeno il direttore del Centro per la giustizia minorile per la Sardegna, Sandro Marilotti, e l’insegnante Maria Pia Mura, avrebbe sperato che il poeta dei vinti e della vita si sarebbe recato in visita a Is Arenas. A loro bastava aver avviato il confronto tra ragazzi diversi per età e nazione e soprattutto per esperienza di vita. Molti di quei detenuti avevano la giovinezza e la voglia di allontanarsi da un luogo di repressione. Tutto nacque grazie a “Ricominciare”, il quadrimestrale degli istituti penitenziari della Sardegna che, nel numero di dicembre del 1991, aveva pubblicato un servizio dal titolo poco giornalistico: “De Andrè, un uomo, un mito”.Per posta quel giornale fu inviato a casa di De Andrè e lui, che aveva una particolare attrazione per i perdenti, convinto com’era che ci fosse poco merito nella virtù e altrettanta poca colpa nell’errore, bussò alla porta del carcere. Is Arenas è una casa di reclusione all’aperto, un paradiso d’estate per i pochi che possono accedere alla spiaggia privata, un inferno per chi è costretto a starci, come tutte le prigioni. L’edificio, con un’azienda agricola immersa in diversi ettari di terra, confina con le maestose dune di Piscinas che si affacciano su un mare limpido; ma le condizioni delle carceri italiane non sono tanto diverse da quelle dell’Ottocento, popolate dagli ultimi della società, dagli outsider che spesso, come nel caso degli immigrati, non hanno nessuno a difenderli. Fabrizio pose due condizioni ferree alla direzione del penitenziario: l’incontro si sarebbe dovuto tenere in grande segretezza, lontano da stampa e fotografi, e, altra clausola peraltro scontata, non avrebbe suonato.

Due punti fermi: “Se tu inviti a cena un chirurgo – disse – non gli chiedi mica di fare un intervento, né a un professore solleciti una lezione”. L’esigenza di segretezza discendeva dalla discrezione di una persona nobile d’animo, capace di aprirsi sulle questioni personali ma che non avrebbe tollerato l’idea che quella visita fosse stata fatta per avere in cambio un po’ di pubblicità; così come il silenzio era di rigore quando faceva beneficenza.

La notizia della visita a Is Arenas rimase nascosta mentre alla seconda condizione decise di derogare sul momento. Berto, Maurizio, Pino, Alessio, alcuni dei ragazzi, vollero osare nonostante le raccomandazioni avute dai dirigenti dell’istituto. Fu Maurizio a dire qualcosa all’orecchio di Fabrizio mentre gli altri andavano a prendere la chitarra dalla biblioteca del carcere.

Fabrizio era un uomo buono – sì, non bisogna avere paura di usare questo aggettivo – e non volle dare un altro dispiacere a quei ragazzi sottraendosi dal regalare quell’attimo prezioso. Prese la chitarra, la accordò e, come in una inevitabile osmosi, cantò cinque brani: “Don Raffaè”, “Bocca di Rosa”, “La canzone di Marinella”, “A Cimma” e “Megu Megun”.

A Is Arenas, Fabrizio, come sempre faceva, superò le barriere sociali, trattando tutti alla stessa maniera senza distinguere tra i responsabili dell’istituto, gli educatori e i poliziotti. Al posto della star c’era un uomo sincero. Fabrizio non si nascose, rispose a tutto.

I ragazzi vollero sapere del mondo della musica, dei colleghi cantautori, della tenuta di Tempio trasformata in agriturismo, e soprattutto delle canzoni, che poi è come parlare di vita: delle donne vittime del sacrificio della verginità, della maternità, della prostituzione; degli uomini costretti a tutti i peccati, come il ladro de “Il testamento di Tito” , semplicemente perché le leggi sono sempre calate dall’alto e non sono fatte per i poveri.

Fabrizio suonò “Don Raffaè e Maurizio, subito dopo, disse che nemmeno il carcere è uguale per tutti: “Le bande camorristiche mafiose arrivano a gestire un potere laddove lo Stato lascia spazi”. Il paradosso è che un servo dello Stato, il povero Pasquale Cafiero, si vede costretto a chiedere a Don Raffae’ una serie di piccoli favori.

Poi le domande toccarono la questione dolorosa del sequestro: “Saresti venuto qua se ci fosse stato uno dei tuoi sequestratori”? Fabrizio rispose di sì, perché se uno perdona deve perdonare in tutto. E questo ha significato non costituirsi parte civile nel processo, esempio di coerenza di tutta una vita.

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