The last woman on earth
Ero l'ultima rimasta. La padrona assoluta del pianeta. Una donna insignificante. Senza marito né figli. Una specie di parentesi rimasta aperta a causa di un guasto tecnico, incapace di custodire i propri ricordi e quindi costretta a lasciarli volare via, lontano. La città stava implodendo su se stessa, inghiottita dal mare. Osservavo quella lenta agonia dalla spiaggia, con addosso il vestito a cui tenevo di più. Quello destinato alle grandi occasioni. Mai messo prima d'ora, in realtà. Nessuna ribalta importante, nella mia vita, solo opportunità lanciate al vento. Perdute. Esisteva una credenza comune, quasi una leggenda per la verità, sul fatto che noi giapponesi fossimo dei grandi lavoratori. Efficienti, ligi al dovere, con un'etica solida come quella di un baobab. Leggende, per l'appunto. Solo leggende. Eravamo depressi, incapaci di aggiungere estro a ciò che facevamo, automi programmati ad eseguire sempre la stessa cosa, allo stesso modo. Lemmings pronti a morire col sorriso sulle labbra. Ma tant'è. La verità è che avevo la netta sensazione che quello fosse l'ultimo giorno. Una specie di ultima replica dello spettacolo al termine della quale, una volta calato il sipario, non ci sarebbero stati né applausi né fischi, solo silenzio. Gli attori sarebbero tornati nei loro camerini, qualcuno avrebbe spento le luci, e poi via. Fine della storia. Reset Totale. Rimasi a fissare i palazzi raggiungere il punto di non ritorno. Una pendenza così estrema da far schiumare di rabbia persino Pisa e la sua Torre più famosa. Mi ero chiesta più volte dove fossero finiti tutti quanti. Scomparsi. Dematerializzati. Nessuna pandemia, nessuna guerra nucleare, nessuna apocalisse digitale. Era finita così, senza dare troppo nell'occhio, lasciando un'unica traccia sulla sabbia, un'anomala quanto enigmatica "doppia X". Una donna qualunque a sostenere tutto il peso della fine. Avevo retto fino a quando avevo potuto, stremata, in fin di vita. Le voci di miliardi di persone a chiedere "perché", e io a cercare di dare una risposta convincente. Una risposta che non esisteva affatto. Che chiedessero a Dio. Non a me. Che ne sapevo io della fine del mondo? Nulla. Non avevo mai capito niente della vita, io, figuriamoci della morte. Quando arrivò il momento - quello della fine, intendo - cominciai a tremare. Non riuscivo più a controllare le mie azioni. I denti continuavano a battere gli uni contro gli altri come una coppia di nacchere in mano a una ballerina di flamenco, mentre il resto del corpo sembrava essere finito in balia di una violenta scarica elettrica. Il mio io mi stava stretto. Sentivo la sua parte trascendente prendere forma e diventare sempre più grande. Quella carcassa organica che mi aveva accompagnato per tutta la vita, ora stava per essere espulsa. Mi sarei ritrovata completamente nuda. Ma non una nudità fisica, quanto piuttosto una di natura spirituale. In quell'attimo fuggente ma eterno, sarei riuscita a fissare la morte dritta negli occhi. Caddi in terra e battei violentemente la testa. Tuttavia non sentii alcun dolore. Ero appena stata sbattuta fuori dal mio corpo. Lo vedevo adagiato là, poco lontano da dove mi trovavo ora. Un ammasso di materia organica pronta per essere gettata tra i rifiuti. Tornai a guardare davanti a me. Lui era lì. C'era sempre stato. Prima vidi. Poi compresi. Infine rifiutai. Nonostante non avessi più un corpo e fossi circondata da una luce abbagliante – insomma, nonostante fossi, almeno all'apparenza, una specie di Dio –, rimanevo comunque un essere umano. Insignificante. Addirittura superfluo. Fissai l'uomo, l’Onnipotente, o qualunque cosa fosse, per l'ultima volta. Lui sorrise. Decisi di lasciarmi andare. Divenni luce. Nient'altro.
Alessandro Casalini Scrittore
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