Notturno indiano

«Che cosa ci facciamo dentro questi corpi», disse il signore che si stava preparando a stendersi nel letto vicino al mio. La sua voce non aveva un tono interrogativo, forse non era una domanda, era solo una constatazione, a suo modo, comunque sarebbe stata una domanda alla quale non avrei potuto rispondere. La luce che veniva dalle banchine della stazione era gialla e disegnava sulle pareti scrostate la sua ombra magra che si muoveva nella stanza con leggerezza, con prudenza e discrezione, mi parve, come si muovono gli indiani. Da lontano veniva una voce lenta e monotona, forse una preghiera oppure un lamento solitario e senza speranza, come quei lamenti che esprimono solo se stessi, senza chiedere niente. Per me era impossibile decifrarlo. L'India era anche questo: un universo di suoni piatti, indifferenziati, indistinguibili. «Forse ci viaggiamo dentro», dissi io. Doveva essere passato un po’ di tempo dalla sua prima frase, mi ero perduto in considerazioni lontane: qualche minuto di sonno, forse. Ero molto stanco. Lui disse: «come ha detto?». «Mi riferivo ai corpi», dissi io, «forse sono come valigie, ci trasportiamo noi stessi». Sopra la porta c'era una veilleuse azzurra, come nei vagoni dei treni notturni. Misturandosi con la luce gialla che veniva dalla finestra creava una luce verdolina, quasi un acquario. Lo guardai e nella luce verdastra, quasi luttuosa, vidi il profilo di un volto aguzzo, con un naso leggermente aquilino, le mani sul petto. «Lei conosce Mantegna?», gli chiesi. Anche la mia era una domanda assurda, ma non meno della sua, certo. «No», disse, «è un indiano?». «È un italiano», dissi io. «Conosco solo inglesi», disse, «gli unici europei che conosco sono inglesi». 

Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio Editore (collana La memoria n° 93), 2002³³ [1ª ed.ne 1984]; pp. 38-39.


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