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Si era nella seconda metà degli anni Novanta, e la parola «imprenditore», spinta, promossa, direi quasi inoculata, attraverso un’ossessiva campagna di marketing, da una nuova e potentissima ditta politica, stava entrando ormai nel linguaggio comune. […] Di qua, oltre le reti e le doppie porte con vetro antiproiettile ci siamo noi e quelli come noi, che lavorano in proprio per costruire la propria fortuna, e dànno anche lavoro agli altri; di là c’è un mondo di dipendenti sfigati e invidiosi, magari anche comunisti, che non sanno stare al posto loro e non fanno altro che lamentarsi; di dipendenti pubblici, che sono ancora più sfigati e più invidiosi; di politici rapaci che non ci fanno lavorare e si inventano ogni giorno una tassa nuova, come se già non ce ne fossero abbastanza, che se uno le pagasse tutte, non varrebbe neanche la pena lavorare; e poi pagare per cosa?, che poi bisogna difendersi da soli, e stare anche attenti, che se uno ti entra in casa e gli spari, sta sicuro che dopo vai in mezzo a rogne; e se uno si ammala, non ha mica la mutua; per non parlare della pensione da artigiano, che sono quattro lire; perciò pagare cosa?, dicevano mia moglie e suo fratello, Per ingrassare chi? E poi ci criticano, che non paghiamo le tasse, che siamo tutti banditi, che denunciamo meno dei nostri dipendenti, e poi giriamo con la Porsche sotto il culo. Ma che cazzo, dicevano, uno lavora come uno schiavo, sarà pur padrone di comprarsi la macchina che vuole! Insomma, tutto il consueto repertorio a cui, come tutti, vivendo dove vivo, ero abituato. Mai sentito un cosiddetto piccolo imprenditore dire qualcosa di diverso. […] Non era questo che mi inquietava, almeno non prendendo la cosa singolarmente. Ma che un simile modo di pensare diventasse ideologia, che potesse fare massa apertamente, per così dire, senza più nessun filtro, nemmeno di forma, era questo che mi dava i brividi. […] Niente da dire, il grande piazzista conosceva i suoi polli.

 Works - Vitaliano Trevisan


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