LETTERA AGLI SCONOSCIUTI
Vuoi fondare una rivista. Trasponiamo questi termini letterari in termini umani. Conservo il verbo fondare. Fondare vuol dire agire, cioè
essere uomini. Eliminiamo la parola rivista, troviamone un’altra per
esprimere ciò che c’è di umano nel tuo intento.
Che cosa vuoi fondare? Un’azione.
Compiere un’azione, agire: essere molteplici. Questo è ciò che di
magnificamente umano intendete intraprendere: siete un gruppo di
umani che pensano, che desiderano insieme.
Hai iniziato con un nome. Sur. Sud. Esistono molti uomini al Sud,
molti uomini in Sudamerica. In mezzo a costoro tu hai creato un
gruppo chiamato Sud. Sur. Un nome proprio, particolare. Ecco qual
è la tua vera patria: quel gruppo, quelle idee, quella volontà.
Una rivista è un gruppo di uomini che condividono la propria giovinezza, che pensano insieme.
Non è bene che si incontrino troppo presto. Se si è troppo giovani non
si ha nulla da dire. Non è bene che si incontrino troppo tardi. Una
volta annunciato ciò che hanno in comune, si separeranno. Senza il
principio umano, un gruppo diventa una mera ‘rivista’, nel senso letterale del termine: un luogo dove non si fa altro che ripetere ciò che
è già stato detto molte volte, in cui le persone non si incontrano per
amarsi e amare ciò che fanno insieme, ma semplicemente per scrivere, la sola superficiale somiglianza che li accomuna.
Dopo dieci anni, rompete le macchine da scrivere, bruciate gli archivi, solo così porterete a termine il lavoro cominciato insieme. Una
volta maturi, gli artisti non possono più convivere: il frutto, separato,
cade dall’albero. Allora, verrà fondata una nuova compagine, con un
nuovo nome: sarai sostituita.
Non conosco l’America. Non ho mai viaggiato. Non ho mai toccato
l’America né l’Asia. Soltanto l’Africa. Non conosco i tropici. Conosco
il deserto che si staglia tra la zona temperata e quella tropicale. Avete
simili deserti nel vostro Sur?
Immagino la vastità e la varietà del vostro Sud, come se si estendesse
dalla Costa Azzurra al Congo. Ma si volta verso altre stelle.
Non ho mai viaggiato: ho sognato tutte le parti del mondo. Ogni
uomo degno di questo nome porta nel suo cuore sensibile tutte le
parti del pianeta.
Ho guardato attraverso gli uomini dei quattro angoli del mondo che
sono passati per la Francia, che passeggiano a Parigi.
C’è stato un momento particolarmente vivido nella mia gioventù
quando uomini provenienti da tutto il mondo si sono riuniti in Francia per combattere. Ho trascorso sei mesi nell’esercito americano, in
Francia. Ho visto quaranta milioni di francesi attraverso il milione di
yankee che mi circondavano.
Chi erano quegli uomini? Ne raspavo l’odore straniero nel cuore della
mia terra, dove ci avevano sepolti. Ritornarono. Al momento dell’imbarco mi dissero: “Ora che siamo amici, seguici. Hai solo venticinque
anni. Vieni a vivere da noi, prendi una delle nostre donne come moglie. Qui tutto è vecchio, qui sei destinato ad appassire”. Ho detto:
“No”. Essendo scrittore, pensavo di essere legato soltanto a chi poteva
leggermi nella mia lingua. Oggi non credo più a questa necessità. La
traduzione macina ormai ogni lingua. Una lingua planetaria si sta
facendo avanti: giovane, ingenua, brutta. Addio belle lingue antiche,
con possenti radici locali. Desidero l’inglese, il tedesco, il russo, lo spagnolo.
Perché non viaggio? Non c’entra il denaro. Lasciatemi sognare ancora per qualche anno tutte le parti del mondo dalle rive della Senna.
Tutto il mondo mi viene a trovare, ma io non voglio vederlo, non
voglio averci a che fare. Sulla mia piccola Île Saint-Louis, arroccata
come una barca alle spalle di Notre Dame, ho visto arrivare i russi
reduci dalla Rivoluzione, gli italiani che ne hanno fatto un’altra, più
misera, i tedeschi che forse ne stanno preparando una terza, gli spagnoli degni del risveglio, i messicani che soffrono e ammazzano, gli
argentini che soffiano con impazienza.
Oh, mio pianeta, frutto delicato posto sulla mia mano sensitiva!
Che cos’è mai l’Argentina? Un paese come l’Africa australe o l’Australia. I bianchi del Sud.
Ho combattuto in Oriente, al fianco dei ruvidi cavalieri dell’Australia
e della Nuova Zelanda. Quella notte ad Alessandria, quando la cavalleria Anzac, reduce da sei mesi di deserto al confine con il Canale di
Suez, ha dissipato i propri soldi in un quartiere di prostitute… Uomini rudi.
Ho visto argentini a Montmartre sperperare soldi per le donne. Ho
cercato di indovinare un’anima dietro a quella follia.
Ma per me non è importante definire l’Argentina.
Tu devi vivere. E la mia vita ha bisogno della tua. La tua, di me. Siamo sullo stesso pianeta, enorme e misero allo stesso tempo.
All’indomani della guerra, per qualche tempo, mi sentii ancora abbastanza francese. Come un uomo che soffre per una malattia, e quel
male gli ha rimpicciolito la mole. Più tardi, in convalescenza, ho ritrovato la salute. Non mi sento altro che europeo. Non mi possono
capitare altro che disgrazie o gioie europee.
È il minimo che posso dire, è il minimo che penso. Ma nei giorni
spaziosi, dilatati, nei quali, grazie a Dio, torno abbastanza spesso, mi
sento ai confini del pianeta. Sono posseduto da umori tropicali e da
umori polari. Sono il teatro di un dramma che si rappresenta a tutte
le latitudini, a tutte le longitudini.
Penso così di fronte a ogni problema: che sia sessuale, economico,
filosofico, d’arte.
Certamente, sei come me. Scrivi perché non puoi farne a meno, perché una forza infuria, grida, sospira. Ma scrivi anche perché devi mettere ordine ai tuoi desideri: altrimenti essi si incastreranno tra loro,
avanzeranno coperti da ferite, come belve il cui istinto non è sufficiente a salvarle dalle tagliole. Se i leoni possedessero la ragione, sarebbero i padroni del mondo, senza assistere al massacro della loro nobile
razza nei circhi, lontana dalle lussuriose prede.
Per vivere meglio bisogna pensare – è necessario scrivere (ma scrivere
poco, e soltanto di questioni capitali). Se non si scrive, l’Argentina
vivrà di meno, soffrirà di meno, godrà di meno.
Soltanto una cosa nobilita l’uomo: le sue passioni. Quando dico passioni intendo tutte le passioni: dall’incantamento dello zelo al torbido
odio erotico verso gli dèi, dalla guerra aperta alla rinuncia.
Questo è quello che devi cantare – incurante del timbro del canto.
Non è necessario dire: canterò l’amore argentino; è necessario dire:
canterò l’amore. Soltanto dopo si capirà che la tua canzone d’amore
risuona con toni che si odono soltanto in Argentina.
Niente è più misterioso dei matrimoni di sangue e di terra. Conrad,
nato in Polonia, cantava in inglese gli amori dei bianchi che vivono
ai Tropici; Barrés, che è francese, respirava meglio appena varcava la
frontiera spagnola; Montherlant si trova bene soltanto in Marocco, mentre Malraux sogna giungle asiatiche a Parigi. In quale paese si
dirigerà il giovane argentino che desidera nuovo cibo, nuovi luoghi in
cui far emigrare la sua poesia?
Mistero. Lasciamo che sia il mistero a operare. Gli storici spiegano
quando è troppo tardi.
Non raggiungere troppo presto la tua meta, non svelare il tuo tesoro.
Lascia che i venti di tutto il mondo scorrazzino per la tua pampa. Non
mettere un’etichetta ai tuoi autoctoni frutti. Noi, gli stranieri, diremo:
questo viene dal Sud, quest’altro no.
Avete la testa nel gelo e i piedi ai tropici. Come noi europei, che camminiamo dalla Svezia al lago Ciad. Già, perché per noi l’Africa è una
necessità. Ogni anno giovani francesi, inglesi, italiani partono per i
deserti dell’Africa mentre i ragazzi del Belgio costruiscono un impero
in Congo. Il pianeta è stretto, il pianeta è vasto.
Oggi un uomo ha tre patrie: la sua, quella in cui è nato, quella che
tiene il calco dei suoi passi da bambino e da vecchio; poi il suo continente; infine, il pianeta.
Un sognatore sul bordo della Senna
Drieu La Rochelle
Il testo - “Carta a unos desconocidos” - è tratto da “Sur”, año I, verano 1931.
Traduzione di Davide Brullo.
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