Magnanimità

di Agostino Bimbo

Incipit Sursum corda

E così si andò anche quella fredda mattina a veder impiccare la gente. Quanto ci dava gusto!
Gli empi, i banditi, gentaglia che si meritava di oscillare al vento con una corda al collo. Ci andavamo anche il giorno dopo e quello dopo ancora, a vedere i corvi tirare la loro pellaccia e prender gli occhi. I bambini si divertivano da morire. Stavano tutti in gruppo a indovinare le storie dei pendagli da forca: quello ha ucciso la moglie, quell’altro ha rubato in banca, quell’altro è frocio, quell’altra è - ovviamente - una strega. Ma il giorno in cui comincia per davvero questa storia, capitò qualcosa che non so tuttora spiegare. Ho ricostruito tutto nei minimi dettagli, eppure non riesco ancora a venirne a capo. Perché a penzolare, in quella cupa sera di settembre, fu un solo essere umano, un uomo, accusato di vilipendio a Sua Maestà. E quando andarono via tutti, compresa mia moglie e i miei figli, in piazza restai solo io. E un gatto nero, sotto i piedi del padrone.
Io che provavo pietà - sentimento indegno della mia stirpe, rinomata per la sua ferocia. Io che per la prima volta, mi lasciavo attorcigliare lo stomaco dalle smorfie di un impiccato.
Come avevano fatto quegli spasmi scomposti a mettermi la tremarella alle labbra? Mia moglie è stata la prima ad accorgersene. A fissare con disprezzo – come biasimarla? - il mio deglutire malinconico. Ricordo ancora la sua pelliccia di spalle, puntellata dai primi fiocchi di neve degli Urali, allontanarsi insieme ai bambini piangenti, sottratti alla festa delle impiccagioni.
Tutto questo per un criminale qualsiasi. Che idiozia: impallidire per un tizio che aveva tentato di avvelenare il re, o almeno così dicevano in piazza. Certi spettatori bisbigliavano di confetti all’arsenico, i ragazzini di pugnali intrisi di belladonna, un omone occhialuto di oppio turcomanno. Una vecchia, schernita dal pubblico, aveva tirato in ballo un budino alla ricotta. E urlava ai sapientoni di tenere le fantasie a freno: l’attentato era stato così maldestro che il giudice di corte lo aveva derubricato a vilipendio. Ma a quelli, permalosi, non bastava. Le gridavano di rimando: finire sulla forca per un budino alla ricotta? Che assurdità.
Me lo chiedevo anch’io. Io che più ascoltavo, più sentivo l’angoscia punzecchiarmi la gola.
Perché era il budino alla ricotta caprina, il dolce preferito del re, era il budino con le bucce di cedro caramellato la causa dell’oltraggio. Budino che quest’anno, spiegava la vecchia fra le gomitate, si era sbriciolato sulla tavola imbandita per il compleanno reale, ridotto a una poltiglia marezzata di giallo. Aveva provato ad assaggiare lo stesso, il re misericordioso, ma era stato un disastro: conati imbarazzanti sotto gli occhi dei suoi ospiti, festeggiamenti rinviati, e una rabbia matta per quell’affronto alla sua autorità. Rabbia che solo il collo spezzato del cuoco di corte poteva placare.
Che beffa morire per un budino, pover’uomo, sibilava la voce nella mia testa. Tanto più per colpe altrui. Perché più si aggiungevano dettagli al misfatto, più mi sentivo sprofondare: ero stato io ad assaggiare per primo quella ricotta. Ed ero stato io, confesso, ad averci pisciato dentro. Ecco fatto, l’ho detto: ci avevo pisciato dentro per dispetto. Screzi antichi con la cucina di corte, robetta ordinaria. Ma ero stato io ad averla mandata in acido mentre sobbolliva nel pentolone. Così addio budino. E addio cuoco di corte.
Fin qui la pietà. Ma è l’essere andato oltre che mi perseguita. Aver deciso su due piedi, mentre la mia famiglia mi voltava le spalle in quella sera odorosa di autunno kazaco, che il cadavere del cuoco doveva sparire. Non doveva restare in balia dei becchi famelici, degli sputi dei passanti, dei sassi lanciati dai monelli e dei banchetti dei miei simili.
Percorsi così i pochi metri di distanza dalla forca pronto a recidere la corda ignominiosa.
Quando me lo sono ritrovato di fronte: il gatto. Gatto imbambolato sotto l’ombra dondolante del suo padrone. Gatto sentimentale avvizzito dagli anni, imbolsito dai pasti nelle immondizie di corte che gli avevano dato i natali, deciso a difendere quel che restava del suo capobranco umano. Che tenerezza, il suo salto verso il sottoscritto - forse riconosciuto, in un’illuminazione tardiva, come il ladro della ricotta ferale. Che commozione la zampata maldestra sul mio volto e quelle goccioline di sangue tiepido sulle guance raggelate. Non volevo aggredirlo. E non ce n’era bisogno.
Bastava mordere - quello che ho sempre saputo fare. Mordere il nodo di canapa che serrava il cancello della torre campanaria. Arrampicarmi lungo i camminamenti merlati della piazza e le assi marce della tettoia sospesa sulla forca. Mordere gli anelli del braciere pendente, spezzarne il ferro rugginoso con l’aiuto delle unghie. Farlo precipitare. E vedere, con somma soddisfazione, l’olio gocciolare sulla pelle contratta del cadavere, scivolare sulle fibre indurite della ghigna, sulle mani aggricciate. Olio bollente capace di aprire la strada alle fiamme, che ormai danzavano tronfie dinanzi al gatto impazzito e si riverberavano nei miei stessi occhi.
Occhi spalancati fino all’alba. Occhi arrossati dai suffumigi acri dell’arrosto umano, dei tizzoni muti, fumanti, adagiati sull’assito ricoperto di neve. Neve bianca, irridente, come batuffoli di ricotta sulla polvere scura del corpo, sul pelo del gatto assopito, sulla mia pelliccia irsuta di sudore e fatica.
Ne era valsa la pena? Era servito a qualcosa compiere un’impresa del genere in cambio dell’esilio dal mio branco? Non saprei. In quella mattina di settembre, obnubilato dai dubbi e dagli acciacchi della mezza età, stanco di nutrirmi di scarti come tutti i ratti del regno, ignaro dei miei giorni futuri di rapina e disonore, godevo soltanto della mia impensata magnanimità.

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