Dino Buzzati 14. IL RE A HORM EL-HAGAR

Questi i fatti avvenuti in località Horm el-Hagar di là della Valle dei Re, al cantiere per gli scavi del palazzo di Meneftah Il. Il direttore degli scavi, Jean Leclerc, uomo attempato e geniale, ebbe una lettera dal segretario del Servizio delle Antichità che gli annunciava una visita di riguardo: un illustre archeologo straniero, il conte Mandranico, verso il quale si raccomandavano i maggiori riguardi. Leclerc non ricordava nessun archeologo che si chiamasse Mandranico. L'interessamento del S.d.A. - pensò - anziché da reali meriti, era procurato da qualche alta parentela. Ma non ne fu seccato, tutt'altro. Da dieci giorni era solo, il suo collaboratore essendo partito per le vacanze. L'idea di vedere in quell'eremo una faccia cristiana che si interessasse un poco delle sue vecchie pietre non gli dispiacque. Da quel signore che era, spedì una camionetta fino ad Akhmim per fare provviste e sotto un padiglione di legno da cui si dominava l'intero complesso degli scavi allestì una mensa perfino elegante. Sorse quel mattino d'estate, caldo e greve, con le modiche speranze che accompagnano il nascere del dì sui deserti, e poi si dissolvono nel sole. Proprio il giorno prima, all'estremità del secondo cortile interno, tra le informi cataste delle colonne crollate, era uscita dalla sabbia, dopo molti secoli di buio, una stele con iscrizione di grande interesse per ciò che rifletteva il regno, finora rimasto oscuro di Meneftah II. "I re due volte dai nomi del nord e dalle paludi sono venuti a prosternarsi dinanzi al faraone, sua maestà, vita, salute, forza" diceva l'iscrizione alludendo probabilmente alla sottomissione di vari signorotti del Basso Nilo già ribelli "e sconfitti lo hanno aspettato alla porta del tempio, portavano le parrucche nuove profumate d'olio, in mano tenevano corone di fiori ma gli occhi non sono stati pari alla sua luce, le membra ai suoi comandi, le orecchie alla sua voce, le parole allo splendore di Meneftah, figlio di Ammone, vita, salute, forza..." La notte precedente, al lume di un petromax, la decifrazione non era andata oltre. Ora, benché Leclerc non desse più l'importanza di una volta alle affermazioni accademiche e alla fama, il ritrovamento gli aveva procurato una gioia sincera. Guardando a oriente, verso l'invisibile fiume, là dove la pista automobilistica si perdeva in una prospettiva senza fine di terrazze rocciose polverulente di sabbie, l'archeologo pregustava la soddisfazione di annunciare all'ospite ignoto la scoperta, proprio come si ama trasmettere al prossimo una buona notizia. Vide in quel mentre - non erano ancora le otto - un lontano esile turbine levarsi dall'orizzonte, cadere, rifarsi più alto e consistente, ondeggiare nell'aria immobile e pura. Poi, con un alito di vento che gli mosse i capelli bianchi da artista, giunse anche un ronzio di motore. La macchina dello straniero stava per arrivare. Batté le mani Leclerc e a un paio di fellah accorsi fece segno. I due corsero all'ingresso del recinto, aprirono la porta di solide travi Poco dopo l'automobile entrava. Leclerc notò subito sulla targa, con leggero disappunto, l'insegna del corpo diplomatico. Fermatasi la macchina quasi dinanzi a lui, ne scese prima un giovanotto stilé che Leclerc doveva aver già visto da qualche parte al Cairo, poi un altro signore bruno e compunto dall'aria molto seria; infine, con gran fatica - e il Leclerc capì ch'era quello l'ospite - un vecchietto piccolo e segaligno, dalla faccia di tartaruga assolutamente inespressiva. Sorretto dal signore bruno, il conte Mandranico scese dalla vettura e appoggiandosi a un bastoncello mosse verso il cantiere. Fino a quel momento nessuno pareva essersi accorto del Leclerc il quale tuttavia con la sua decorativa corpulenza e il largo vestito bianco campeggiava nella scena. Finalmente il giovanotto per primo si avvicinò annunciando in francese che lui, tenente Afghe Christani della Guardia di Palazzo e il barone Fantin (alludeva evidentemente al signore bruno), avevano l'onore (chissà perché tanta solennità) di accompagnare Monsieur Le Comte Mandranico a questa visita che "confidiamo sarà del più alto interesse". A questo punto il Leclerc d'un subito riconobbe l'ospite: troppo spesso i giornali egiziani avevano pubblicato la fotografia del re straniero che viveva in esilio al Cairo. Archeologo illustre? Non era una bugia, dopo tutto. Nella sua giovane età - ricordò l'egittologo - il re aveva dimostrato spiccato interesse per la etruscologia e ne aveva appoggiato gli studi anche ufficialmente. Perciò il Leclerc si fece avanti con un certo impaccio, accennò a un piccolo inchino, la sua simpatica faccia arrossì lievemente. L'ospite, sorriso spento, borbottò qualche parola, dando la mano. Quindi le altre presentazioni. Ben presto il Leclerc ritrovò la disinvoltura abituale. " Di qua, di qua, signor conte " disse indicando la via " è meglio cominciare il giro subito, prima che faccia troppo caldo. " Con la coda dell'occhio si accorse che il compostissimo barone Fantin aveva offerto il braccio al conte; quasi irosamente il vecchio lo aveva però respinto, avviandosi da solo a piccoli stentati passi. Il giovane Christani seguiva da presso con una bianca borsa di pelle sotto il braccio e sorrideva genericamente. Giunsero su un ciglione roccioso, donde sprofondava tra due alte ripe tagliate con meravigliosa precisione un lungo piano inclinato. In fondo si apriva come una larghissima e piatta fossa, a metà della quale un rotto colonnato, terribilmente immobile, formava la facciata esterna dell'antica reggia. Spigoli diritti, ombre geometriche, nere occhiaie rettangolari di atrii e portali si accavallavano più in là in apparente disordine, rivelando, in così morto paesaggio, che quello era pure stato il regno dell'uomo. Spiegava il Leclerc, con signorile distacco, le difficoltà dell'impresa. Prima che si iniziassero gli scavi, tutto era sepolto dalle sabbie e dai detriti fin sopra la cima delle colonne e del maggiore frontone. Una montagna di materiale si era perciò dovuta scavare, sollevare, portar via, per un dislivello in alcuni punti perfino di 20 metri, fino a raggiungere il piano originario del palazzo. E il lavoro non era che a metà. " Ta scianti cencio tan ninciatii levoo...? " domandò con voce chioccia il conte Mandranico, aprendo e chiudendo la bocca in modo curioso. Leclerc non capì una parola. Fulmineo, guardò il serio barone chiedendo aiuto. E il barone doveva essere allenatissimo a difficoltà del genere perché, impassibile, si affrettò a spiegare: " Monsieur le comte desidera sapere da quanto tempo si sono iniziati gli scavi ". E c'era nelle parole un vago disdegno, come se fosse logico che il vecchio re parlasse in quel modo, e idiota colui che avesse avuto la tentazione di meravigliarsene. " Da sette anni, signor conte " rispose Leclerc, suo malgrado un poco intimidito " e ho avuto il privilegio di inaugurarli io stesso... Ecco qui, ora ci conviene scendere di qui, è l'unico punto un po' disagevole " disse, quasi facendo suo l'imbarazzo del decrepito conte dinanzi allo sdrucciolo del piano inclinato. Il barone ritentò di offrire il braccio e questa volta non venne respinto; commisurando i suoi passi a quelli del conte si avviò per la discesa. Anche Leclerc rispettosamente avanzò molto adagio. La china era ripida, l'aria sempre più calda, le ombre si accorciavano, l'ospite insigne strascinava un po' la gamba sinistra, impolverandosi la scarpa di pelle bianca, dall'estremità della fossa giungevano ritmici colpi, come di mazzapicchi. Come furono in fondo, non si videro più le baracche del cantiere, nascoste dal ciglione; ma soltanto gli antichi pietroni, e intorno le alte ripe precipitose, calcinate e cadenti. Verso occidente esse si innalzavano a gradoni formando una vera montagna, anch'essa più che mai nuda, ormai soggiogata dal sole. Leclerc, cortese, spiegava e il conte Mandranico alzava ogni volta la faccia meccanicamente senza partecipazione, approvando con piccoli cenni; ma si sarebbe detto non ascoltasse. Ecco il colonnato d'ingresso, il troncone di una sfinge androcefala, i minuziosi bassorilievi semicancellati dal tempo, dove si indovinavano figure di deità e di monarchi. Ermetici come montagne gli appiombi delle antiche muraglie non rispondevano agli sguardi umani. Lo straniero avvistò allora nel cielo delle nuvole strane che salivano lentamente dal cuore dell'Africa. Erano tronche di sopra e di sotto, come se un coltello le avesse tagliate, e solo ai fianchi ridondavano di molli gorghi spumosi. Con infantile curiosità il conte le additò col bastoncino. " Le nuvole del deserto " spiegò Leclerc " senza testa né gambe... come se fossero schiacciate tra due coperché, vero?... " Il conte stette a fissarle alcuni istanti, dimentico dei faraoni, poi vivamente si volse al barone domandando qualcosa. Il barone dimostrò confusione e si scusava ampiamente senza perdere la sua compunzione. Si poté capire che il Fantin aveva dimenticato di portare la macchina fotografica. Il vecchio non dissimulò la stizza e gli voltò le spalle. Entrarono nella prima corte, in totale rovina. Solo la simmetrica disposizione delle pietre e degli sfasciumi indicava approssimativamente dove un tempo si innalzavano i colonnati e le mura. Ma in fondo due massicci piatti torrioni dagli spigoli sbiechi, resistevano ancora, collegati da un muro più basso e rientrante, dove si apriva un portale. Era il frontone interno del palazzo e Leclerc fece notare due smisurate figure umane che in bassorilievo occupavano ciascuna delle due pareti: il faraone Meneftah II rappresentato nel magnanimo furore della battaglia. Un uomo anziano col tarbusc e una lunga tunica bianca avanzò dall'interno del tempio, avvicinandosi a Leclerc e gli parlò in lingua araba, concitato. Leclerc gli rispondeva scuotendo il capo con un sorriso. " Scusi, che cosa dice? " chiese il tenente Christani incuriosito. " è uno degli assistenti " rispose Leclerc " un greco, che ne sa ormai più di me, si occupa di scavi da almeno trent'anni. " " Ma è successo qualcosa " insistette Christani che aveva afferrato qualche frammento della conversazione. " Le loro solite storie " fece Leclerc " dice che oggi gli dèi sono inquieti... dice sempre così quando le cose non vanno per il loro verso.. c'è un masso che non riescono a spostare, è slittato fuori dalle guide, adesso dovranno rifare l'argano. " " Sono inquieti... eh... eh... " esclamò, non si capiva in che senso, il conte Mandranico, rianimatosi all'improvviso. Passarono nel secondo cortile, anch'esso tutto desolazione e rovina. Solo a destra ciclopici piloni stavano ancora ritti, da cui sporgevano, smozzicate, le sagome di formidabili atlanti. In fondo, una ventina di fellah stavano lavorando e all'apparire dei signori, come presi di frenesia, cominciafono ad agitarsi, vociando, in una simulazione di intenso zelo. Il re straniero guardò ancora le singolari nubi del deserto. Navigando esse tendevano a raggrupparsi in un nuvolone solo, statico e pesante, che invece non si muoveva. Sulla biancastra cornice della montagna a ovest passò l'ombra. Leclerc, ora seguito anche dall'assistente, guidò gli ospiti a destra, in un'ala laterale, l'unico punto dove le strutture fossero in buone condizioni. Era una cappella funeraria, ancora riparata dal tetto, solo qua e là sbrecciato. Entrarono nell'ombra. Il conte si tolse lo spesso casco coloniale e il barone fu lesto ad offrirgli un fazzoletto affinché si tergesse il sudore. Il sole penetrava dagli interstizi con lamine di ardente luce che battevano qua e là sui bassorilievi rianimandoli. Intorno c'era penombra, silenzio e mistero. Nella semioscurità, ai lati, si intravedevano alte statue, irrigidite sui troni, alcune decapitate, dalla cintura in giù, esprimevano volontà cupa e solenne di imperio. Leclerc ne indicò una, priva di braccia ma dalla testa pressoché intatta. Aveva un muso grifagno e malvagio. Avvicinatosi, il conte si accorse ch'era il volto di un uccello, solo che il becco si era spezzato. " Interessantissima questa statua " disse Leclerc. " è il dio Thot. Risale almeno alla dodicesima dinastia e doveva essere considerata preziosa se venne trasportata fin qui. I faraoni venivano a chiedergli... " si interruppe, restò immobile come tendendo le orecchie. Si udiva infatti, non si capiva bene da quale parte, una specie di sordo fruscio. "Niente, è la sabbia, la maledetta sabbia, la nostra nemica " riprese Leclerc tornando a rasserenarsi. " Ma scusatemi... dicevano che i re, prima di partire per le guerre, chiedevano consigli a questa statua, una specie di oracolo... se la statua restava immobile la risposta era no... se muoveva la testa era approvazione... Alle volte queste statue parlavano... chissà che voce... i re soltanto riuscivano a resistere... i re perché anche loro erano dei... " Così dicendo si voltò, nel vago dubbio di aver commesso una gaffe. Ma il conte Mandranico fissava con inaspettato interesse il simulacro, toccò con la punta del bastone il basamento di porfido quasi a saggiarne la consistenza. "Dun ciarè genigiano anteno galli?" chiese finalmente con intonazione incredula. " Monsieur le comte chiede se i re venivano di persona a interrogarli " tradusse il barone, indovinando che il Leclerc non aveva afferrato una parola. "Precisamente " confermò soddisfatto l'archeologo, " e dicono, dicono almeno, che Thot rispondesse... Ed ecco, ecco qui in fondo la stele di cui vi avevo parlato... voi siete i primi a vederla... " Aprì le braccia in un largo gesto, un poco teatrale, restò così immobile, di nuovo ascoltando. Tutti istintivamente tacquero. Il fruscio di prima rodeva intorno, misterioso, come se i secoli assediassero lentamente il santuario cercando di riseppellirlo. Le lame del sole si erano fatte sempre meno oblique, ora scendevano quasi a picco, parallele agli spigoli dei piloni, ma alquanto fioche, quasi il cielo si fosse appannato. Il Leclerc aveva appena cominciato la spiegazione che il barone gettò uno sguardo all'orologio da polso. Le dieci e mezzo. Faceva un caldo d'inferno. "Vi ho fatto fare un poco tardi, signori, forse?" domandò amabilmente Leclerc. " Avrei disposto la colazione per le undici e mezzo... " " La colazione? " esclamò il conte, in tono secco e finalmente comprensibile, rivolto al Fantin. " Ma noi dobbiamo partire... alle 11 al più taddi, al più taddi... " "Non avrò dunque l'onore?... " fece Leclerc desolato. Il barone volse la cosa in termini più diplomatici: " Siamo davvero estremamente grati... davvero commossi... ma impegni... " A malincuore l'egittologo abbreviò i commenti, rinunciando a molte importantissime cose che gli erano care. Il gruppetto ritornò quindi sui suoi passi. Il sole si era spento, una coltre rossiccia si era stesa nel cielo, atmosfera da pestilenze. A un certo punto il conte bisbigliò qualche parola al Fantin, che lo lasciò, precedendolo. Leclerc, pensando che il vecchio avesse voglia di orinare, si avviò all'uscita con gli altri due. Il conte rimase solo, tra le antiche statue. Uscito intanto dal chiuso, Leclerc esaminò la volta celeste: aveva un colore strano. In quel mentre una goccia gli batté su una mano. Pioveva. " Piove " esclamò " da tre anni non si era vista una goccia!... Era un brutto segno a quei tempi... se pioveva i faraoni rinviavano qualsiasi impresa... " Si volse per comunicare al conte, rimasto indietro nel tempio, l'eccezionale notizia; e lo vide. Stava in piedi dinanzi alla statua di Thot e parlava. La voce non giungeva fino a lui ma l'archeologo scorgeva distintamente la bocca che si apriva e chiudeva in quel curioso modo da tartaruga. Monologava il signor conte? o veramente interpellava il dio come i remoti faraoni? Ma che cosa poteva domandargli? Non guerre da poter combattere c'erano più per lui, non leggi da promulgare, né progetti, né sogni. Il suo regno era rimasto di là dei mari, per sempre perduto. Buono e cattivo della vita era stato speso fino in fondo. Non gli restavano che dei poveri giorni superflui, proprio l'ultimo pezzettino di strada. Quale ostinazione lo teneva dunque perché osasse tentare gli dei? Oppure, svanito, non ricordava più che cosa era successo e si immaginava di vivere i bei tempi lontani? O intendeva fare uno scherzo. Ma non era il tipo. " Signor conte! " gridò Leclerc con improvvisa inquietudine. " Signor conte, siamo qui... ha cominciato a piovere... " Troppo tardi. Dall'interno del tempio uscì un suono orribile. Leclerc si sbiancò in volto, il barone Fantin arretrò istintivamente di un passo, la borsa bianca scivolò di sotto al braccio del giovane. E le gocce di pioggia cessarono. Un suono di legni cavi rotolanti, o di lugubri tamburi, così pressappoco dalla cappella di Thot. E poi si ampliò in un mugolo cavernoso, confusamente articolato, simile, ma ancora peggio, al lamento delle cammelle nel parto. C'era dentro una specie di inferno. Il conte Mandranico, fermo, guardava. Non fu visto retrocedere né accennare la fuga. Il becco mozzo di Thot si era dischiuso formando alla base un ghigno, i due moncherini si aprivano e chiudevano bestialmente; tanto più spaventosi perché il resto della statua giaceva immobile, del tutto privo di vita. E dal becco usciva la voce Il dio parlava. Nella quiete, le sue roche maledizioni - perché così parvero - avevano tetre risonanze. Leclerc non era più capace di muoversi. Un orrore mai conosciuto lo teneva, facendogli saltare il cuore. E il conte? come il conte poteva resistere? forse perché anche lui era re, invulnerabile dal Verbo come i sepolti faraoni? Ma la voce adesso ondeggiava in borbottii, cedeva, si spense, lasciando un terribile silenzio. Solo allora il vecchio conte si mosse, coi suoi fragili passettini si avviò all'uscita, non vacillava, non era spaventato. Avvicinatosi a Leclerc che lo fissava inorridito, disse, approvando con cenni del capo: " Ingegnoso: proprio ingegnoso... peccato che force la molla si è rotta... biciognava ciassi tabli cicata... " Stavolta però il barone non era pronto a tradurre gli ultimi suoi balbettii. Perfino il barone tacque, sopraffatto da quell'arido vecchio, sordo ai misteri della vita, così misero da non capire neanche che gli aveva parlato un dio. " Ma in nome del cielo " supplicò finalmente Leclerc, col vago presentimento di cose ostili. " Ma non ha sentito? " Alzò il capo il grinzoso sovrano con atto autoritario: "Cioccheccia! na ciocchezza!" (voleva dire sciocchezza?). Poi ancora con improvviso cipiglio: " è ponta la macchina? è taddi: taddi... Fantin, cagaia fa? ". Sembrava impermalito. Leclerc, dominandosi, lo fissava con un sentimento strano, tra la costernazione e l'odio. Ma un coro di imprecazioni esplose all'estremità degli scavi. I fellah urlavano, impazziti e dal fondo del tempio accorreva a precipizio l'assistente, vociando. " Che dice? che è successo? " chiese allarmato il Fantin. " Una frana " tradusse il giovane Christani " uno dei fellah è rimasto sepolto. " Leclerc strinse i pugni. Perché non se ne andava lo straniero? Non ne aveva avuto abbastanza? perché aveva voluto risvegliare gli incantesimi rimasti per millenni addormentati? In realtà se n'andava il conte Mandranico, strascicando la sua gambetta su per il piano inclinato. Nello stesso tempo Leclerc si accorse che tutt'attorno, dalle bruciate ripe, il deserto si muoveva. Piccole frane smottavano qua e la, silenziosamente, simili a bestie guardinghe. In moto concentrico colavano giù per i valloncelli, canali, fessure, di terrazzo in terrazzo, ora fermandosi, poi riprendendo, stri- sciavano verso il monumento dissepolto. E non c'era un filo di vento. Il rumore dell'auto che si metteva in moto parve per qualche attimo una realtà rassicurante. Commiati e ringraziamenti furono formali. L'imperterrito conte aveva fretta. Non chiese perché i fellah urlassero, non guardò le sabbie, non si interessò del Leclerc che era molto pallido. La vettura uscì dal recinto, scivolò via per la pista tra mulinelli di polvere, scomparve. Rimasto solo sul ciglione, Leclerc ora fissava il suo regno. Le sabbie continuavano a franare, tratte giù da forza misteriosa. Egli vide anche i fellah lasciare in corsa disordinata il palazzo, fuggire spaventati, sparire quasi inesplicabilmente. L'assistente in gabbana bianca correva di qua e di là, con irosi richiami, cercando invano di trattenerli. Poi anche lui tacque. Si poté quindi udire la voce del deserto che avanzava: coro sommesso di mille fruscii formicolanti. Già una piccola colata di sabbia, scivolando giù per una scarpata, toccò il piedistallo della prima colonna, un secondo rigurgito eseguì poco dopo il seppellimento dell'intero zoccolo. " Dio mio " mormorò Leclerc. " Dio mio. "

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