Gli odori

Era così, mezzo secolo fa, la campagna intorno a casa, con la linea ferroviaria dismessa, che prima della guerra collegava la riviera con la Val Roja e Cuneo, dove ho vissuto i primi anni della mia infanzia. Era il nostro territorio di gioco, quando non esistevano la televisione, i videogiochi, i monopattini e avevamo a disposizione quei lunghi pomeriggi estivi, assolati cieli alti e striduli dal frinire assordante delle cicale che vegliavano su di noi appollaiate sui rami dei ciliegi.
Oltre alle cicale non si sentiva altro, forse ogni tanto il latrato di un cane. Né aerei, né automobili, né motopompe, né motozappe. Il lavoro in campagna si svolgeva a mano e in silenzio. La terra si arava e dissodava col magaglio, l'erba falciata con la "serra" a schiena curva, lavoro da donne, il verderame alle viti veniva irrorato con una pompa di stagno, fissata sulle spalle e azionata dalla mano dell'uomo. Anche la gente allora era più silenziosa. Poche chiacchiere e a bassa voce. Strano come nella mia infanzia non abbia mai udito urlare nessuno. Anche i gesti erano misurati, dalla stanchezza che non concedeva sprechi.
Per noi bambini c'era la terra, l'acqua, il cielo, le piante, gli animali selvatici, gli odori e la ferrovia abbandonata, col cancello che chiudeva il passaggio a livello ancora cigolante sui cardini che spingevano con tutta la forza delle nostre braccia per poi saltarci sopra appena presa la rincorsa.
Gli odori. Lungo la massicciata cresceva rigogliosa una pianta infestante dal fusto poco più grande di un pollice con le foglie lanceolate, non ricordo il suo nome, ma l'ho sempre visto prosperare sui bordi delle ferrovie. Ne spezzavamo i rami più teneri per costruirci la capanna, il nostro rifugio segreto, imbrattandoci le mani del lattice bianco e appiccicoso che sgorgava dalle ferite della pianta e ci impregnava di un odore forte e nauseante che non ho mai dimenticato.
Oggi la ferrovia è stata ripristinata, ma la casa e la campagna non ci sono più.

Una ligure

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