Il compagno

Un giorno misi le mani su quel pacco di libri. Non li avevo buttati nel Tevere. Erano vecchi e bisunti. Me li guardai per passatempo e dissi a Gina: — Se qualcuno ti chiede, quest'è roba del Biondo —. Ce n'era di scritti in francese e altre lingue. Li feci fuori l'indomani giú dal ponte. Ma quelli scritti in italiano me li tenni. Raccontavano come era andata la guerra del ‘15 e la storia del Fascio e la marcia su Roma. C'erano dentro i socialisti e tutti quanti, contadini, operai, metallurgici, squadre d'azione. I fascisti li avevano carcerati e picchiati, ammazzato i piú in gamba, e incendiate le case del popolo. «Guarda guarda, — dicevo, — leggi il giornale e non si parla che del popolo italiano». Chi pagava i fascisti erano sempre i signori, e gli squadristi i loro figli. Faceva rabbia legger come tanta gente che lavora s'era fatta fregare da quattro padroni. «E Carletto che vuole ancora fidarsene, — dicevo. — E Luciano ch'è dentro per loro». Tutte le sere ne leggevo un altro pezzo, col batticuore quando un passo si fermava sulla porta, e capivo che un libro cosí non potevo buttarlo via. «Ma li ha letti Carletto? — pensavo. — Possibile?» Ce n'era un altro intitolato “Roma o Mosca”, e mi lessi anche questo perché a Roma ci stavo. Quest'era un libro che nessuno mi poteva metter dentro. Non parlava di Roma. Raccontava che in Russia la gente moriva in prigione, che vivevano in dieci in un locale solo, che le donne battevano la strada e abortivano. — Qui che a Roma hanno fatto la marcia, succede lo stesso, — dissi a Gina. Lei mi covava con quegli occhi tutto il tempo, e sapeva il pericolo e aspettava che andassi a baciarla.

— Cesare Pavese, Il compagno, Einaudi (collana Tascabili Letteratura n° 33), 1993 [1ª ed.ne 1947]; pp. 103-04.

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