Chi sono i poveri e a che servono?

I poveri aumentano. Le statistiche, ma anche l’esperienza quotidiana, dicono che il numero dei poveri nel mondo e anche in Italia è cresciuto enormemente. La Banca Mondiale ritiene “poveri” coloro che vivono con meno di un dollaro e novanta al giorno. Secondo questa logica i poveri nel mondo sono circa un miliardo (intorno al 13 per cento della popolazione mondiale). In Italia i “poveri” stando a questo criterio di misurazione sono circa 9 milioni, più o meno il quindici per cento della popolazione. Com’è ovvio questo criterio e questa logica sono al ribasso. Se infatti non si parla solo di povertà ma piuttosto di “rischio di povertà”, allora i “poveri” italiani diventano più di diciotto milioni, il trenta per cento della popolazione italiana, e quelli del mondo oltre due miliardi, circa un terzo della popolazione mondiale. L’espressione “rischio di povertà” è di grande interesse, e mostra con notevole chiarezza quanto profonda e storicamente complessa sia la maniera di valutare la povertà sviluppatasi in Europa o negli Stati Uniti negli ultimi cent’anni. Non a caso di recente è diventata ufficiale l’espressione “a rischio di povertà o di esclusione sociale” che, evidentemente, suggerisce una difficoltà da parte dei poteri governativi e statistici di stabilire una misura esatta della privazione o del disagio e dell’esclusione sociale che ne derivano. Si suppone dunque che la povertà economica, difficile ovviamente da misurare in termini assoluti, poiché relativa a situazioni di potere d’acquisto diverse a seconda dei contesti sociali o regionali o culturali, possa manifestarsi anche in termini, diciamo così, non esclusivamente economici, ossia come esclusione e cioè separazione effettiva dal Corpo socio-economico. I “poveri” insomma possono essere considerati, da questo punto di vista, persone che magari hanno qualche entrata economica (insufficiente in ogni caso per vivere decentemente), e forse anche una casa, ma poco o nulla a che fare con la società che li circonda, quella di chi sta bene o quasi bene, e che si sente parte costitutiva e sostanziale del mondo. I linguaggi ufficiali descrivono e prevedono una società che fa tranquillamente a meno dei “poveri” o di chi sia “a rischio di povertà”, che non prevede un loro significato che non sia quello di gruppo da soccorrere e dalla quale i “poveri” sono separati per gusti, consumi, passioni e interessi. (...) I poveri, i quasi poveri, quelli a rischio di povertà, proprio perché così piccoli e così invisibili, perché così difficili da inserire nel sistema di significati politici ed economici di chi governava e contava, sarebbero risultati una folla di presenze incomprensibili, all’origine di un disordine e di situazioni pericolose da aggiustare, contenere e utilizzare. Il vasto stuolo dei “poveri” ossia di chi non aveva e non contava sarebbe dunque stato per secoli rinchiuso, minacciato, combattuto, protetto, curato, istruito e addomesticato al meglio acciocché si trasformasse in gregge di docili animali da lavoro. Fino ad oggi: epoca nella quale né l’economia politica né la solidarietà meglio intenzionata, né tanto meno il sistema di mercato, riescono a scoprire il significato e l’utilità di chi è povero o di chi sta per diventarlo. 

Giacomo Todeschini


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