Ecco cosa succederà alle città costiere se non ci svegliamo

Se ne parlava almeno dal 2017, ma ora è ufficiale: l’Indonesia sposterà la propria capitale dalla storica città di Giacarta, ogni anno più vulnerabile alle ricadute del riscaldamento globale, in una metropoli che verrà costruita da zero. La futura capitale indonesiana sorgerà nella regione di Kalimantan, nella parte indonesiana dell’isola del Borneo, e si chiamerà Nusantara, che in giavanese significa “altre isole” o “arcipelago”. L’idea del governo indonesiano, infatti, è di approfittare dello spostamento forzato della capitale per decentralizzare l’attività economica del paese e incentivare una ridistribuzione della popolazione, oggi concentrata in massima parte a Giacarta. C’è molto da imparare da questa storia, e non solo perché è la prima volta che un paese decide di “abbandonare” la propria capitale a causa della crisi climatica, ma anche perché gli errori fatti nella gestione della vecchia capitale possono fungere da cartina tornasole di un approccio all’insediamento e allo sviluppo che si sta rivelando problematico ovunque. (…) Oggi il vecchio territorio del regno di Sunda ospita talmente tante persone che è costantemente a corto di acqua potabile, il che negli anni ha portato le amministrazioni di Giacarta ad attingere senza remore alle falde acquifere sotterranee, prosciugandole gradualmente e portando il terreno dove sorgono gli edifici a compattarsi sempre di più. Questo processo di subsidenza è ormai talmente rapido che Giacarta affonda ogni anno di circa 25 cm, il che significa che la città è ogni anno più vulnerabile all’innalzamento delle acque previsto di qui ai prossimi decenni (…) Quello che sta succedendo sull’isola di Giava si verifica sempre più di frequente, in punti del globo lontanissimi tra loro, e nonostante le marcate differenze storiche e culturali, le ragioni sono quasi sempre le stesse. Prendiamo ad esempio il caso della Louisiana, un territorio relativamente giovane, formato dal sedimento sparso nei secoli dal Mississippi e dunque già naturalmente soggetto alla subsidenza. Ora che il fiume è intrappolato in alti argini, tutto il sedimento che prima nutriva il suolo finisce sputato nel Golfo del Messico. Abbiamo quindi un terreno che tende a compattarsi, che non viene nutrito, e che per decenni è stato trivellato a ripetizione per ricavare gas e petrolio. Non stupisce allora che la città di New Orleans stia sprofondando, e con essa tutta la Louisiana meridionale, come non stupisce che in alcune cittadine (come Isle de Jean Charles) i cittadini si trovino già ora costretti ad abbandonare le proprie case per trasferirsi altrove. Situazioni simili si registrano ovunque, dalla Florida, dove a Miami Beach si sono dovute sollevare le strade di un metro per evitare i continui allagamenti, al Galles, dove il villaggio di Fairbourne è condannato a sparire tra le maree; da Kiribati, una piccola nazione del Pacifico che nel 2014 si è vista costretta a comprare del terreno nelle isole Fiji così da avere un posto dove trasferire i suoi 100.000 abitanti, a Taro nelle Isole Salomon, dove un’altra città dovrà essere abbandonata e ricostruita in una zona più elevata; e poi ancora Malè, Bangkok, Amsterdam, Venezia, Basra: la lista di città che rischiano di essere parzialmente o completamente sommerse entro i prossimi vent’anni ci dà un’idea di quanto il problema si presenti già come attuale, e di come un intero modello di sviluppo vada messo in discussione. (…) Una delle manifestazioni già osservabili della crisi climatica consiste nel verificarsi di fenomeni meteorologici sempre meno prevedibili; in parole povere: piove in modo meno regolare, ci sono più uragani, alluvioni più devastanti, mareggiate più intense. Di conseguenza, gli insediamenti sulla costa sono sempre più vulnerabili. Ne abbiamo avuto prova quest’estate quando a Surfside, in Florida, un palazzo di dodici piani, di costruzione abbastanza recente e in condizioni apparentemente buone, è crollato come un castello di sabbia abbandonato alle onde; e ne abbiamo prova ogni mese, in ogni parte del globo. Ma ancora ciò non è sufficiente a innescare un cambio di direzione, e questo perché storicamente è sulle coste che si accumulano le attività economiche e gli insediamenti urbani, ed è ancora lì che tende a spostarsi la ricchezza. (…) Nell’ultimo secolo in tutto il globo il livello dei mari si è innalzato di circa 20 centimetri, e nei prossimi decenni questo processo è destinato ad aggravarsi. Significa che moltissime città costiere si trovano oggi costrette a progettare strategie di adattamento lungimiranti. Purtroppo, nella maggior parte dei casi le risposte a questa criticità si limitano a costosissime strutture (come il MOSE a Venezia), che potranno solo tamponare il problema nel breve termine, per poi rivelarsi sostanzialmente inutili di qui a fine secolo. (…) 

 di Fabio Deotto

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